Opinioni

Tokyo 2020. Quelli che sanno sudare. Il bilancio e la lezione azzurra in Giappone

Massimiliano Castellani sabato 7 agosto 2021

Antonella Palmisano al traguardo

Serendipity italiano? No, vittorie sudate, volute e conquistate. Non siamo più gli italici piangenti di ieri, abbiamo riconquistato il sorriso. Perché, recita il vecchio slogan, se insisti e resisti, poi vinci e conquisti. In questo strano Paese chiamato Italia, dalla notte dei Leoni azzurri di Wembley, vittoria della Nazionale a Euro 2020, è scattato una sorta di effetto domino positivo. Il calcio ha ridato linfa vitale a una società incerta e ancora malata (non solo per il virus). E il popolo delle bandiere appena conclusi i festeggiamenti per il trionfo dei ragazzi di Roberto Mancini si è concentrato con la stessa benevolenza sulla nostra spedizione olimpica a Tokyo 2020.

I soliti pessimisti cosmici (ora chissà cosa borbottano dinanzi alle 38 medaglie) dopo i primi due giorni con il medagliere vuoto avevano già profetizzato una Olimpiade in stile kamikaze, e invece è diventata «la miglior di sempre» come va gridando per i palazzetti e gli stadi deserti della capitale nipponica Giovanni Malagò.

La camicia azzurra del presidente del Coni, fradicia per l’umidità e la gioia scalmanata degli abbracci ai nostri eroi di Olimpia, ha fatto il giro del mondo. Un mondo in cui siamo diventati più autorevoli da quando al timone del governo c’è SuperMario Draghi. Stimato come fuoriclasse dagli americani, che adesso però quasi come gli inglesi sono rosi dall’invidia (diagnosticata come "rosicamento da variante inglese") perché l’oro nei 100 e nella staffetta della 4x1000 era roba loro, ma ai tempi di Carl Lewis.

È un’Italia sempre più multietnica in cui addirittura il figlio del vento Marcell Jacobs, nato da padre marine a El Paso (Usa) e madre veneta, parla solo italiano con strascico desenzanese-bresciano alla Balotelli e davanti alle telecamere a stelle e strisce si fa addirittura tradurre dal fratello d’Italia Gimbo Tamberi. E vogliamo parlare della velocità e della simpatia contagiosa di Fausto Desalu (con l’accento sulla u), nato a Castelmaggiore, nel Cremonese, da famiglia di origine nigeriana? E dello stile dei sardi Filippo Tortu e Lorenzo Patta?

Ognuno di questi ragazzi ha trascinato l’altro. L’oro di Dell’Aquila da Mesagne, la cittadina del Salento dove i ragazzini preferiscono il taekwondo al calcio, ha dato la spinta a tutti i tiratori e questi ai canottieri e da lì l’onda anomala del contagio medagliato è arrivata alla pista d’atletica, dove gli orologi si erano fermati a Mosca 1980 e agli ori di Pietro Mennea e Sara Simeoni. Dopo di lì, quasi boicottati per la corsa al podio, fino alla riscoperta che – come direbbe Giampiero Galeazzi – «siamo tutti marciatori».

Il barese Stano come un Jake LaMotta a ogni metro della 20 km ripeteva a se stesso «sono il più forte, sono il più forte». E lo stesso deve aver pensato la sua collega corregionale, la tarantina Antonella Palmisano, 30 anni e non sentirli festeggiati alla grande al traguardo come prima storica regina della marcia femminile. Talmente forte questa energia tricolore che un siciliano di Avola, "Ciccio" Busà, è andato a prendersi l’oro nel karate, la disciplina inventata dai giapponesi nell’Isola di Hokinawa.

Insomma, se dopo gli Europei di calcio avevamo capito che questo è tornato a essere un Paese per giovani sportivi di vertice, le Olimpiadi, pur nella terra dei no-vax e delle quarantene a oltranza, come se fossero ancora sotto minaccia atomica, hanno confermato che c’è un’Italia con una marcia in più.

La nuova spinta positiva, che, nonostante i soliti pasticciacci, comunque si avverte nella società civile, arriva proprio da questa meglio gioventù olimpica, che ci ha dato delle lezioni importanti.

La prima: che si è già vincenti quando ci si diverte a fare lo sport che hai scelto da bambino.

La seconda: non siamo più soltanto una Repubblica fondata sul pallone ma esistono sport meno visibili e non più minori che però in questi tre anni che ci separano da Parigi 2024 dobbiamo aiutare a diventare popolari.

E la terza, forse la più importante: siamo, sì, un popolo di artisti, santi e navigatori, ma non siamo degli improvvisatori, perché quando vogliamo, siamo più capaci di altri anche nel programmare per ottenere il risultato prefissato, oltre che sognato. E tutto questo si sintetizza in ciò che il segretario generale del Coni Carlo Mornati ora chiama il «modello Italia».

Che questa Italia dello sport olimpico, sia davvero il modello trascinante per il futuro di un Paese che ha finalmente trovato una "generazione di fenomeni" più umana e più vera, capace di farci superare tutti gli ostacoli che fino a ieri pensavamo fossero impossibili da scavalcare.