Opinioni

Il direttore risponde. Quelle «ultime lettere» di Andreotti: emozioni, reazioni e un dovere forte

Marco Tarquinio martedì 13 maggio 2014
 
Caro direttore,
sono un vecchio professore universitario di 83 anni e ho la fortuna di vivere un’etica cristiana, forse favorita dagli insegnamenti che ricevetti da bambino dal “mio” don Carlo Gnocchi. Con gli occhi inquieti vedo un mondo che in gran parte è governato dalla violenza o dal disinteresse nei confronti dei propri simili. Lei, nel suo bellissimo editoriale di domenica 4 maggio, si chiede se qualcuno in questi giorni si soffermerà a pensare alla “verità interiore” di Giulio Andreotti. Ebbene, io, che ho avuto la fortuna e l’onore di frequentarlo, sono uno di questi, e penso alla sua mitezza contraria alla violenza, al suo interesse per tutto ciò che accadeva e per il prossimo, così contrario all’apatia. Un uomo che ha governato un mondo, ma che del mondo ha saputo cristianamente raccogliere solo le cose positive, vivendo una vita da forte, ma anche umile, una vita forzatamente mondana, ma internamente riservata. Quando il Presidente ha compiuto 80 anni, io ne facevo 70 e dopo le frasi convenevoli d’uso, gli dissi parole un po’ sciocche, «Presidente, stai così bene che vorrei raggiungerti». Lui mi guardò con quel suo sguardo malizioso e mi rispose: «Tu provaci, che io ti aspetto». Ora lui se n’è andato, non mi ha aspettato, ma è questione di poco tempo. Bravo direttore, grazie direttore. Il Presidente deve restare nei nostri cuori, occupare il posto che gli spetta. Delle “Ultime lettere”, così ben raccontate da quell’ottimo giornalista che è Roberto Rotondo, non dirò niente; alla mia età non ci si può commuovere troppo. Con tanta simpatia.
Gino Moncada Lo Giudice
 
Caro direttore,
un grazie per la pubblicazione esclusiva e gli articoli dedicati a «Le ultime lettere di Andreotti» (“Avvenire” del 4 maggio 2014). Con gradevole sorpresa ho divorato quella pagina e, da già giovane democristiano, ho avuto quasi l’impressione di ripercorrere, attraverso le parole del buon Giulio, quella strada di impegno civile che ha visto dispiegarsi e impegnarsi «una classe media della santità». Quanti segretari di sezione del partito, militanti e amministratori ho potuto conoscere che per il Paese hanno sacrificato parte o gran parte della loro esistenza terrena con dovuto disinteresse. Non sono mai stato della corrente di Andreotti, anzi ho combattuto politicamente uomini della sua area, ma riconosco che anche quella esperienza includeva in una dialettica interna alla Dc aree della società civile altrimenti non rappresentate. È importante continuare a mantenere viva la memoria di quella pagina esaltante nella storia del movimento cattolico italiano in cui la Democrazia Cristiana fu architrave dello Stato democratico e seppe assumersi la responsabilità del buono (e del meno buono) che si agitava nelle istituzioni.
 
Giuseppe Moriano, Borgo d’Ale (Vercelli)
 
Caro direttore,
ho letto e riletto l’articolo di Roberto Rotondo, pubblicato sul giornale il 4 maggio scorso, sulle ultime lettere di Giulio Andreotti.
Del grande statista conservo gelosamente i vari (cito a braccio) “Visti da vicino”, “Pio IX”, “On. stia zitto”, “De Gasperi”, eccetera. Di tanto in tanto li riprendo in mano per la scorrevolezza dello scrivere e l’acutezza delle descrizioni dell’autore. Nell’articolo citato si riferisce che la famiglia ha pubblicato le 6 brevi lettere inedite solo in poche copie. Peccato.
 
Agostino Migliorini, Trevenzuolo (Vr)
 
Centile direttore,
qualcuno ha scritto che Giulio Andreotti «pensava quello che diceva, ma non diceva quello che pensava», quindi, si figuri quando scriveva… Ecco perché ritengo utile ricordare quello che pensava e scriveva Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti Corsari”, in risposta a un articolo di Andreotti: «Il silenzio di Andreotti era intriso di un cereo sorriso di astuzia terribilmente insicura e ormai timida senza riparo (…). Appunto Andreotti. È alla sua risposta che dovrei replicare. Naturalmente non senza esitazioni. Ciò che temo è che egli mi abbia a bella posta – con una abilità che è naturale al potere – trascinato nella sua palude. Dunque se in tale palude, in tale grigiore io gli rispondo, faccio il suo gioco. Se non gli rispondo, però, non faccio il mio gioco. In cosa consisterebbe l’abilità di Andreotti (se c’è)? Nell’avere risposto a un articolo che io non ho scritto. Infatti a me non potrebbe mai nemmeno venire in mente di scrivere qualcosa che concerne il malgoverno o il sottogoverno. Ci sono centinaia di giornalisti e di politici più informati di me, che scrivono appunto, e da trent’anni, sul malgoverno e sul sottogoverno democristiano. Andreotti, secondo l’ipotesi che sto formulando, avrebbe finto di annoverarmi tra coloro che scrivono del malgoverno e del sottogoverno democristiano, e di conseguenza avrebbe scritto una finta difesa d’ufficio. In questo gioco di finzioni io non avrei potuto che perdermi. (…) Voglio dire che – pur accennando alla criminalità comune e politica, che quasi caduta dal cielo, caratterizza l’odierna vita italiana – Andreotti ha omesso nel suo articolo di parlare della strategia della tensione. È chiaro comunque che finché i potenti democristiani taceranno sul cambiamento traumatico del mondo avvenuto sotto i loro occhi, un dialogo con loro è impossibile. Ed è altrettanto chiaro che fin che i potenti democristiani taceranno su ciò che invece, in tale cambiamento, costituisce la continuità cioè la criminalità di Stato, non solo un dialogo con loro è impossibile, ma è inammissibile il loro permanere alla guida del Paese. Del resto c’è da chiedersi cos’è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti democristiani a restare al potere, o l’apolitica passività del Paese ad accettare la loro stessa fisica presenza. (“Quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare, bisogna accettarlo così com’è”)». Ecco, direttore, io credo che Andreotti abbia sempre cercato di trascinare l’interlocutore nella sua palude, nel suo grigiore, anche in queste lettere post mortem. La ringrazio della considerazione che vorrà riservare a questa mia riflessione e spero di incontrarla presto per stringerle la mano.
 
Francesco Spinelli, Falerna (Cz)   Ho scelto solo alcune delle diverse e stimolanti riflessioni e considerazioni arrivate in questi giorni in redazione dopo la pubblicazione su “Avvenire” dello scorso 4 maggio della straordinaria testimonianza racchiusa nelle sei brevi lettere “post mortem” che Giulio Andreotti scrisse tra il 1978 e il 2005. Lo faccio non per commentare ulteriormente a mia volta, ma per dare spazio al seguito per così dire “dal basso” alla vicenda di quella pagina intensa e, forse, per qualcuno “scomoda”. Un prevedibile seguito di reazioni lucide eppure appassionate e, dunque, inevitabilmente, anche agre. Non me ne stupisco affatto, gentile signor Spinelli, anche se penso che l’ammirevole profondità poetica e la civile libertà dello sguardo di Pier Paolo Pasolini che lei prende in prestito non sempre siano state all’altezza del proprio oggetto o, come in questo caso, dell’uomo Andreotti e della complessità della parabola politica dello statista (non tutta felice, a mio parere, ma non certo riducibile a vicenda grigia, paludosa e antidemocratica). Grazie a tutti degli apprezzamenti per il bell’articolo di Roberto Rotondo e per le mie note. Grazie al professor Moncada Lo Giudice per il “regalo” dell’inedito scambio di battute col suo amico presidente. Al signor Migliorini per aver dato voce in poche righe alla voglia di tanti di poter leggere integralmente qualche altra pagina che aiuti a vedere “da vicino” l’Andreotti interiore. Grazie al signor Moriano per aver ripreso un’immagine che mi piace molto, quella della «classe media della santità» che, abitando anche l’impegno politico, contribuì in maniera decisiva a ricostruire l’Italia e a dare saldezza alla nuova democrazia repubblicana. Un bene che, oggi, non possiamo e non dobbiamo permetterci di custodire poco e male.