Opinioni

Lettere ad Avvenire. Quella generazione di adulti che chiama "ragazzi" i trentenni

Le nostre voci di Marina Corradi mercoledì 5 aprile 2017

Caro Avvenire,
ho letto con interesse l’articolo di Massimo Calvi sui cosiddetti “Neet” (“Avvenire” del 22 marzo scorso); mi ha molto colpito il dubbio che alcuni studi pongono sul fatto che le nuove generazioni siano depresse e insicure “per carattere”. Riporto solo un piccolo scorcio di storia personale e familiare.
Quando 4 anni fa abbiamo annunciato che ci saremmo sposati, avevamo 27 e 28 anni, eravamo fidanzati da 10, laureati e con lavoro a tempo indeterminato da 2. Le condizioni perfette, ma le reazioni che abbiamo ricevuto sono state per lo più di stupore: «Perché vi sposate?»; «Siete così giovani, godetevi la vita»; «Sei incinta?»; «Io, se tornassi indietro, non mi sposerei prima dei 30 anni»; «Voi al Sud (Roma) vi sposate presto». Ammetto che è venuto il dubbio anche a me di essere troppo giovane per sposarmi. Mio fratello più piccolo è stato ancora più sorprendente: pur potendo scegliere l’università, è andato a lavorare contro la volontà genitoriale e a 25 anni (con 5 anni di lavoro a tempo indeterminato) ha espresso il desiderio di sposarsi con la sua fidanzata (con lavoro a tempo indeterminato). È stato osteggiato strenuamente: «Tuo fratello sembra grande, ma è ancora un bambino, non può prendersi la responsabilità di una famiglia. E poi lavorano entrambi tante ore, come fanno a gestire la casa?». Sono banalità, certo, ma volevo condividerle per ampliare il discorso sul presunto carattere di quei ragazzi che non hanno la forza o la volontà di diventare adulti. A 20 anni, a 25, a 30, anche a 35 si è definiti “ragazzi” e come tali si è trattati (e se sei un ragazzo non hai bisogno di lavorare come un adulto, non hai bisogno di farti una famiglia stabile, ti devi divertire, sei un consumatore, come quando di anni ne avevi 15... ). È corretto dire “una donna di 20 anni”? Di certo si può dire un ragazzo di 30 anni. L’età anagrafica è una realtà biologica.
L’irrequietezza adolescenziale non è un problema da sedare, al più da incanalare; è la stessa carica che la natura mette in corpo al rondinotto che lascia il nido: deve farlo e al momento giusto, altrimenti interviene la selezione. Se il mantra continuo e riecheggiante è: «Sei troppo giovane per prenderti responsabilità, lascia fare agli esperti, prendi il tuo ciuccio e stai buono», non si può biasimare se qualcuno finisce per crederci e si arrende aspettando che qualcosa accada; il non cadere nella trappola è una grazia. Proviamo a non pensare ai problemi degli “over 18” come problemi dei ragazzi, ma come problemi dei nuovi adulti di oggi, già questo potrebbe aiutare a dare un po’ più di fiducia.

Chiara D’Epifanio


Gentile signora D’Epifanio, mi piace che una lettera come la sua arrivi da una trentenne, anagraficamente sorella dei cosiddetti “Neet” (acronimo inglese che sta per giovani che non studiano, non lavorano, non fanno alcuna formazione). E condivido le sue considerazioni. Nel parlare quotidiano, nelle cronache dei giornali un trentenne è sempre un “ragazzo”, quasi la adolescenza non finisse mai. Appena due generazioni fa alla stessa età si era mariti e padri. A chi giova questa adolescenza infinita? Forse, come lei scrive, anche a mantenere il più possibile i giovani in un’età di consumi da single svagati, lontano dai sacrifici di chi mette su una famiglia. O forse la ragione è più profonda, e i figli eterni fanciulli hanno tacitamente ricevuto dai padri il dubbio sulla bontà di continuare la propria storia, e quella del proprio Paese. C’è una miscela di consumismo e gaio nichilismo che tende a lasciare i giovani in un lungo limbo. Salvo poi, a quarant’anni, scoprire che non è facile trovare un lavoro, che d’improvviso si è già “vecchi”, che un figlio finalmente voluto non arriva. È uno degli inganni in cui ci conduce certa cultura dominante. Quando lei, 27enne, ha annunciato che si sposava, molti le hanno risposto: «Così giovane? Ma no, dovete godervi la vita». Risposta classica, e significativa del nostro tempo. Godersi la vita è fare ciò che piace, tornare tardi la notte, viaggiare, svagarsi. Magari trasgredire un po’. Tanto, a casa i padri e le madri aspettano, e la sopravvivenza è assicurata. Questa cultura “gaia” però in realtà è povera e sterile. In Italia le culle sono vuote di centinaia di migliaia di bambini non nati, e solo ora anche il mondo laico se ne accorge. Non, però, che sia colpa dei figli. È la generazione dei padri che non ha saputo tramandare un senso positivo di una vita spesa nel lavoro, nella famiglia, per gli altri. «Che cosa non ricordano, che cosa non sanno?» si chiedeva in una poesia Mario Luzi, riferendosi ai giovani, con la lucidità che hanno a volte i poeti. In un certo senso fa comodo agli adulti chiamare i trentenni “ragazzi”. Così non si arrabbieranno perché non trovano lavoro, o una banca che gli conceda un mutuo. Non sono solo, infine, appunto dei ragazzi? Ho notato però come sui giornali, nella cronaca nera, la giovane prostituta straniera maltrattata è, improvvisamente, definita una “donna”, così come il ragazzo immigrato, oppure il bandito. Quelli, a 20 anni sono già “uomini”. La cultura del lungo Kindergarten vale solo per i figli nostri, che proteggiamo, manteniamo, trattiamo da fanciulli. Ma chissà, se questo è volere bene davvero.