Opinioni

I nuovi progressi nella conoscenza degli stati vegetativi. Quella dignità «nascosta» da riconoscere e servire

Gian Luigi Gigli mercoledì 14 novembre 2012
La notizia diffusa ieri per prima dalla Bbc è di quelle che aiutano a star bene, perché allargano il cuore e danno speranza, a tutti. In Canada un celebre neuroscienziato, l’inglese Adrian Owen, è riuscito attraverso una macchina a comunicare con un uomo in stato vegetativo da altre 10 anni, riuscendo a chiedergli come si sentiva e a ottenerne una risposta consolante: non sto soffrendo.È una prova ulteriore del fatto che in alcuni pazienti in stato vegetativo è possibile il persistere di una coscienza sommersa. La conferma si colloca nella linea dello studio pubblicato dallo stesso Owen su Science nel 2006, quando riuscì a ottenere con la risonanza magnetica funzionale risposte simili a quelle dei soggetti di controllo (ovvero del tutto sani), dopo aver richiesto a un paziente in stato vegetativo di immaginare mentalmente un percorso all’interno di un’abitazione e, successivamente, il resoconto di una partita di tennis. Questa nuova dimostrazione costituisce il logico sviluppo di un metodo messo a punto dallo stesso scienziato per ottenere attivazioni differenziate a quesiti cui era possibile rispondere solo con un sì o un no. Con lo studio, pubblicato nel 2010 sul New England Journal of Medicine insieme allo studioso italiano Martin Monti, fu possibile dimostrare che in una minoranza di pazienti in stato vegetativo il cervello riesce a fornire risposte affermative o negative, in modo non dissimile a quello dei pazienti in stato di minima coscienza e dei soggetti di controllo.Capito come il cervello di un paziente riesce a rispondere sì o no, è stato ora possibile utilizzare le risposte per comunicare con lui, superando l’assenza di ogni apparente segno di consapevolezza o di abilità comunicativa. Forse davvero questi pazienti possono anche registrare traccia dei fatti nuovi che accadono intorno a sé, come annunciato sempre ieri a proposito di un altro simile caso.Questi successi della conoscenza scientifica non devono tuttavia inorgoglirci ma mostrarci semmai quanto poco ancora conosciamo del nostro cervello, e come dovremmo essere prudenti nell’emettere giudizi definitivi sulle sue capacità funzionali. La gravissima condizione di disabilità del paziente in stato vegetativo ci chiede di continuare a studiare per conoscere meglio il mistero che ancora avvolge i disturbi di coscienza. Ancor meno un risultato come questo dovrebbe diventare pretesto per contese ideologiche in cui il paziente venga brandito come una clava contro l’avversario.Forse un giorno anche il miglioramento delle nostra capacità di comunicazione con i disabili in stato vegetativo potrà aiutarci a migliorarne la qualità della vita. È certo però che già oggi queste persone (tali esse restano infatti, malgrado tutto) ci chiedono piuttosto di essere solidali con il loro bisogno estremo. Ci mobilitano a impegnarci come cittadini per proteggerle anche mediante leggi mirate da ogni possibile abuso. Ci sollecitano ad attuare interventi socio-assistenziali per migliorare la loro condizione e dare un sostegno concreto ai propri cari che con estrema fatica, ma con enorme amore e dedizione, li assistono quotidianamente.Anche per noi medici, infine, la frontiera dello stato vegetativo non dovrebbe costituire solo uno dei capitoli dei disturbi coscienza ma l’occasione propizia per non smarrire il fondamento deontologico dell’agire sempre in scienza e coscienza, convinti che non dobbiamo essere noi ad attribuire dignità all’essere umano: una dignità che siamo chiamati solo a riconoscere e servire.​