Opinioni

Lo scontro attorno al tempio della musica. Quel melodramma non da Scala

Giacomo Gambassi giovedì 27 giugno 2019

C’è un melodramma che in queste settimane viene scritto al Teatro alla Scala di Milano. Una parte del libretto l’abbiamo già. Manca chi lo metterà in musica. Ma va beh... La vicenda è un «caso strano » che sta suscitando un gran «baccano», si direbbe citando Un ballo in maschera di Verdi. Ecco la trama. Nel Ducato del Piermarini si sta concludendo il regno di Alessandro (al secolo Alexander Pereira). Il nobile-sovrintendente austriaco non vorrebbe lasciare nel 2020 e continua a ripetere parafrasando l’aria della contessa di Folleville in Viaggio a Reims di Rossini: «Partir, o ciel, non desio ». Il consiglio dei saggi lo ha già graziato per alcune «ingenuità», come ha affermato il borgomastro Giuseppe (Sala): per aver acquistato da Salisburgo alcuni allestimenti da portare nel “rinomato loco” e per aver venduto agli sceicchi d’Arabia un posto nel Cda in cambio di fiumi di quattrini.

Tuttavia i saggi hanno individuato il successore (che arriva da Vienna) ma non hanno ufficializzato la decisione: si deve attendere il 28 giugno. «Ah, qual colpo inaspettato!», canterebbe Rosina nel Barbiere di Siviglia di Rossini, riferendosi al cambio di rotta. Alessandro desidera che il mandato sia rinnovato e si sta muovendo per raggiungere il suo obiettivo. Il popolo è diviso sull’avvicendamento. Una parte degli assidui del Piermarini osannano l’austriaco considerandolo un «benefattor degli uomini », come dice di se stesso Dulcamara nell’Elisir d’amore di Donizetti: ha raccolto moltissimi denari che hanno fatto la ricchezza e la beltà del Piermarini; ha portato nomi di grido; ha aperto le porte del teatro-regno quasi ogni giorno e ha guardato anche a famiglie e bambini con successo. I suoi detrattori lo accusano di aver abbassato la qualità, di aver moltiplicato eventi e rappresentazioni, di aver penalizzato i fedelissimi del Ducato, detti loggionisti, che non esitano a fischiare ciò che non reputano all’altezza della fama dell’“impero lirico” e della sua secolare tradizione.

Al fianco di Alessandro si schiera il celebre maestro Riccardo (Chailly), amato e apprezzato dal pubblico, che lo sostiene pubblicamente e propone che resti. All’improvviso si fa sentire Donna Cecilia (Bartoli), mezzosoprano acclamato in tutti i continenti. Annuncia che non metterà più piede al Piermarini come segno di vicinanza al sovrintendente prossimo all’allontanamento e che, dunque, annulla il suo ritorno previsto per ottobre. Dal palazzo, con una lettera dai contorni misteriosi, viene resa nota la corrispondenza fra il marito di lei e Alessandro. «Non mi abbandonate », scrive l’austriaco. «Cecilia è solidale», risponde il di lei marito. Nel frattempo i tagliandi della “diva” sono messi in vendita senza comunicare la rinuncia. Così arriva un nuovo messaggio della “diva” stessa, stavolta piccato: «Ho chiesto di cancellare il mio nome, ma la direzione non ha seguito la richiesta». E Cecilia parla di «comportamento inaccettabile».

Il finale dell’opera non c’è ancora. Probabilmente Alessandro resterà per altri due anni e affiancherà il nuovo condottiero francese Domenico (Meyer) che lavora nell’ex capitale asburgica. Allora si potrà ripetere come in Pagliacci di Leoncavallo: «La commedia è finita». Eppure sarebbe opportuno che tutti riprendessero in mano Simon Boccanegra di Verdi e facessero proprio l’anelito del doge di Genova: «E vo gridando: pace». Perché la Scala ha bisogno di concordia e collaborazione, non di melodrammi come quello attuale. È vero che in palio c’è uno dei più autorevoli incarichi nel panorama lirico internazionale, ma non può una delle massime istituzioni culturali italiane, vanto del Paese nel mondo, finire preda di giochi di potere e di un «importuno strepitar», come si denuncia alla fine del primo atto del Barbiere di Siviglia…