Opinioni

Quale giornalismo. Internazionale e la strage di Garissa: quei cristiani "dimenticati"

Gerolamo Fazzini giovedì 16 aprile 2015
Difficile, forse impossibile, negare il significativo contributo offerto, in questi anni, da “Internazionale” nell’opera di apertura e “sprovincializzazione” del panorama mediatico italiano. Proprio per questo, sorprende non poco leggere l’ultimo numero del settimanale, che ha dedicato la copertina alla strage di Garissa, in Kenya, nella quale sono stati uccisi 148 studenti.  Nella titolazione dei pezzi, infatti, mai compare la parola “cristiani”. Mai. Disattenzione? Errore? Censura? Prima di azzardare una risposta, va ricordato che “Internazionale” sceglie e traduce articoli dal meglio della stampa straniera. Anche in questa occasione l’ha fatto, proponendo un reportage di “Le Monde”, un’analisi di “Al Jazeera” (dal Qatar), un commento della statunitense “Foreign Policy”, un approfondimento dell’inglese “The Indipendent” e, per finire, una commuovente testimonianza in prima persona di uno scrittore kenyano. Un menù molto ben assortito, insomma: testate prestigiose, informazione curata, interventi ben scritti. Un mix di competenza ed appeal raramente  riscontrabile altrove. Eppure… Eppure salta all’occhio quell’incomprensibile silenzio sull’identità degli uccisi, identità che i pezzi tradotti non dimenticano affatto. Nel drammatico racconto di “Le Monde” ad esempio – che si apre con la testimonianza del vescovo di Garissa – si legge: “Nel rivendicare l’attacco all’università, Al Shahaab ha precisato di aver scelto attentamente le vittime e di aver risparmiato i musulmani per uccidere solo i cristiani”.  Nel pezzo tratto da “Foreign Policy” si parla esplicitamente di “caccia all’uomo contro i cristiani”. Ma nella titolazione su “Internazionale” tutto questo è sparito. Di nuovo si affaccia – inesorabile – l’interrogativo: distrazione o cancellazione voluta? Non saremo noi a fare processi. Rimane il fatto che una testata che fa della qualità dell’informazione il suo biglietto da visita non può non interrogarsi su una “svista” di questo tenore. Lo diciamo in ossequio alla verità, non certo per una battaglia confessionale di retroguardia.