Opinioni

Rapporti fra poteri e riforme. Quattro punti per ricucire la tela strappata

Gianfranco Marcelli sabato 28 novembre 2009
Qualcosa di particolarmente serio deve aver convinto Giorgio Napolitano ad anticipare il suo intervento sulla situazione politica e istituzionale del Paese. Un inter­vento che aveva preannunciato otto giorni fa in Turchia e che molti osservatori atten­devano per i tradizionali incontri augurali natalizi con le alte cariche dello Stato e la stampa accreditata. Invece ieri il presidente della Repubblica ha «sentito il bisogno» (pro­prio così si è espresso) di pronunciarsi subi­to, quasi temesse che ulteriori indugi potes­sero rendere meno efficace o, peggio anco­ra, ormai inutile la sua iniziativa. È molto probabile che i livelli dello scontro sulla giustizia e le riforme, le voci sui possi­bili o paventati nuovi provvedimenti della magistratura a carico del premier, le immi­nenti proteste di piazza, le stesse ricorrenti fibrillazioni all’interno della maggioranza abbiano indotto il Quirinale ad affrettare i tempi. Sull’accelerazione devono aver in­fluito di sicuro anche le notizie lasciate fil­trare dal vertice del Pdl di giovedì sera, con le evocazioni belliche e le accuse a una par­te delle toghe italiane (definita «tanto esigua quanto dannosa» nel documento finale) di voler far cadere il governo. Lo stesso vale per altri passaggi molto espliciti sottoscritti dal­l’ufficio di presidenza, in cui si parla di e­quilibrio «completamente saltato» tra i po­teri e gli ordini statuali e di «peso abnorme» acquisito da giudici e pm nella dialettica de­mocratica. Ne è scaturito un breve statement , per usa­re un’espressione familiare al Colle, in quat­tro punti, che domandano e meritano at­tenta meditazione. C’è anzitutto l’invito a smetterla con la drammatizzazione delle tensioni tra partiti e soprattutto tra chi rico­pre «responsabilità costituzionali». L’esorta­zione appare rivolta in primo luogo a Palaz­zo Chigi e dintorni. Dove però dovrebbe suo­nare più gradita la successiva affermazione, secondo cui quando un governo ha la fidu­cia della maggioranza e poggia sulla «coe­sione » degli alleati che insieme hanno vin­to le elezioni, «nulla» (nemmeno un avviso di garanzia o una condanna in primo grado?) può abbatterlo. Segue – terzo punto – l’esortazione ad auto­controllarsi nelle sortite pubbliche, rivolta sì erga omnes , ma con un richiamo mirato, e stavolta davvero severo, agli operatori del­la giustizia, affinché restino «rigorosamen­te » nei limiti delle loro funzioni. Non stupi­sce che, nel coro dei consensi piovuti sulla mossa di Napolitano, si sia distinto l’ex pm Antonio Di Pietro, con la sua richiesta di non zittire i magistrati. E che il sindacato della categoria, l’Anm, si sia messo sulla difensi­va, dichiarandosi vittima di aggressione. In­fine, quarto punto, c’è il rinvio alla centra­lità del Parlamento, cui spetta, «in un clima più costruttivo», l’elaborazione delle rifor­me necessarie anche a riequilibrare in mo­do corretto il rapporto fra politica e giustizia (che dunque viene apertamente ricono­sciuto bisognoso di messa a punto). Nel complesso, l’esternazione del capo del­lo Stato presenta tutte le caratteristiche per conseguire lo scopo che si prefigge: è fran­ca ed esplicita nell’individuare i nodi, netta e incisiva nell’indicare le vie d’uscita, dà, co­me si usa dire, a ciascuno il suo. Evita perfi­no di calcare a sua volta i toni, per esempio sui rischi, per altro a tutti evidenti, che il Pae­se sta correndo, se l’interminabile «spirale» delle contrapposizioni non si arresta. Ma è chiaro che molto dipenderà dal modo in cui, al di là dei consensi a parole, i protagonisti dello psicodramma nazionale sulla giustizia raccoglieranno l’appello a smetterla una vol­ta per tutte. E a passare dalle inutili parole di guerra alle concrete azioni riformatrici. Sono esortazioni e auspici più volte espres­si dal Colle, ma anche da quanti condivido­no con Giorgio Napolitano una sincera pre­mura per il bene dell’Italia. Venti giorni fa, il presidente della Cei Angelo Bagnasco, nel­l’assemblea dei vescovi di Assisi, ha invita­to a superare l’ormai invivibile clima «di si­stematica e pregiudiziale contrapposizio­ne » ed a promuovere un «disarmo» ben più fecondo di risultati, rispetto a una «prassi più bellicosa, che è anche la più inconclu­dente ». E un analogo appello a «deporre le armi», sempre da Assisi, è venuto domeni­ca scorsa dal Segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone.