Opinioni

L’allarme della Caritas, la miopia di tecnici, burocrati e politici. Povertà e priorità

Massimo Calvi giovedì 18 ottobre 2012
«L’attuale sistema di welfare è incapace di farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali che derivano dalla crisi economica e finanziaria». Questa affermazione, contenuta nel rapporto sulla povertà in Italia che la Caritas ha presentato ieri, dovrebbe essere posta alla base di ogni riflessione in materia di politica economica e sociale, riforme del welfare, misure per il risanamento, interventi per la crescita, leggi di stabilità, provvedimenti per adeguarsi alle richieste europee e quant’altro un esecutivo può avere in serbo per fronteggiare e tentare di governare la crisi in corso. Un welfare inefficace e inefficiente, che cioè spende meno a causa dei tagli, e che soprattutto spende male, si traduce anche in quello che la Caritas ha drammaticamente registrato nei suoi quasi 200 centri di ascolto in 28 diocesi: forte aumento delle persone in difficoltà, aumento degli italiani bisognosi di assistenza, crescita esponenziale di richieste di aiuto da parte di casalinghe, pensionati, persone che hanno perso il lavoro. E domande sempre più pressanti per avere cibo e vestiti, trovare un lavoro anche minimo, la casa, essere ascoltati. Aiuti per vivere e sopravvivere. Il punto centrale, che dovrebbe essere compreso per una analisi costruttiva del problema di fondo, è che la Caritas – con la sua specifica matrice e vocazione ecclesiale – è parte integrante di quello che noi consideriamo welfare, è cioè una componente fondamentale della rete di sostegno ai bisogni "sul territorio" che una società sa darsi, integrando il lavoro dello Stato con quello della società, dei volontari o dei lavoratori delle imprese sociali, dei cittadini (cattolici o laici che siano). È anche una cartina di tornasole capace di far emergere quelli che il direttore della Caritas, don Francesco Soddu, ha definito «segnali di speranza», e che sono rappresentati dalle molte e nuove esperienze avviate nelle diocesi per rispondere ai bisogni che via via emergono. Come sa bene chi è abituato a vivere il territorio, e parla di welfare con le maniche rimboccate e le mani a contatto con la realtà, c’è un filo sottile ma molto robusto che tiene insieme tutto questo: parte dall’impegno delle persone e passa dalle parrocchie, dalle Caritas, dalle associazioni, entra nelle cooperative sociali che danno assistenza, lo si ritrova nelle comunità di accoglienza, nei centri per minori, negli asili per i più piccoli e per i più fragili e soli, nei banchi alimentari. È quel mondo che si chiama economia civile, Terzo settore, non profit e che – ieri l’economista Stefano Zamagni lo ha spiegato con grande efficacia su queste colonne – rappresenta un «punto di forza dell’Italia». Il dramma, o se vogliamo il paradosso, è che oggi questo universo è messo pesantemente sotto pressione, attaccato da più fronti, fino a metterne a rischio la sopravvivenza. Da una parte, richiamandosi a direttive o procedure europee (apparentemente e rovinosamente incapaci di leggere la storia e specificità di un Paese come il nostro), piovono interventi come le misure sull’Iva delle cooperative sociali o l’Imu per chi svolge e offre attività sociali o educative senza scopo di lucro. Dall’altra parte emerge, persino più colpevolmente, l’assenza se non di misure compensative per mantenere in vita questo patrimonio, almeno di una lista di "priorità" condivise da tutelare e proteggere come beni preziosi. Alcuni degli interventi previsti dalla Legge di stabilità vanno, infatti, a colpire proprio quelli che sono gli investimenti minimi ed essenziali nella vita delle famiglie: le spese per i figli, il mutuo per la casa, le donazioni al sociale. Restringendo ulteriormente sia reddito disponibile sia "riserve" di sostegno sussidiario a nuclei e singoli.In una crisi di dimensioni epocali, dove l’esigenza del risanamento costringe a scelte difficilissime e impegnative, con ricadute sociali evidenti e anche assai dolorose, di tutto c’è bisogno fuorché di misure – per dirla con le parole che il presidente delle Acli Andrea Olivero ha usato in una recente intervista all’Unità – che non da tecnici sono state messe a punto, ma da "burocrati" e "funzionari" capaci di superare la volontà dei ministri, a loro volta miopi nella volontà di leggere la complessità e i bisogni della società italiana. Tutto può essere modificato, risanato, tagliato o incrementato, l’Iva come l’Imu o l’Irpef, ma è la politica che deve essere abile nell’individuare le priorità da salvaguardare o esentare nei modi possibili. E tuttavia non può essere incolpata la politica se la stessa società non è in grado, in una fase così complessa, di sfrondare il dibattito dal superfluo, dalle diatribe non necessarie, per intendersi su che cosa dovrebbe essere considerato veramente indispensabile, fondamentale. E se non sono essenziali i bambini, le famiglie, l’economia civile, che cosa lo è?