Opinioni

Popotus. 25 tenaci anni a misura di bambino

Nicoletta Martinelli martedì 23 marzo 2021

Fu chiaro fin da subito: chi era in cerca di favole e fumetti doveva cercare altrove. Come prodotto per bambini, “Popotus” era un inedito: in pagina attualità, cronaca, politica. E, appunto, il primo numero – data: 23 marzo 1996 – ebbe come tema principale le imminenti elezioni per il rinnovo del Parlamento. E la carriera di un candidato spiegata per filo e per segno. Roba da bambini. Come molti non immaginavano: smentendo ogni previsione, “Popotus” piacque al suo pubblico di riferimento che lo seguì più numeroso del previsto.

Tempo qualche mese e arrivò la seconda uscita settimanale. A gran richiesta, un bis al giovedì, incentrato sulla corrispondenza con i lettori, un po’ grafomani e pieni di domande, difficili da accontentare: deludendoli si rischiava l’ostracismo. Bambini che si trovarono ad affrontare cambiamenti epocali nei primi cinque anni di vita dell’inserto, dal 1996 al 2001, gli stessi presi in esame dal numero speciale che trovate oggi con “Avvenire”. La tecnologia si preparava a irrompere nella vita di ciascuno, sebbene sul finire del secolo solo sei italiani su mille fossero connessi. E meno della metà dei lettorini di allora aveva provato a navigare in rete. Cinque bambini su cento – interrogati da un sondaggio realizzato da “Popotus” in collaborazione con la Società italiana di pediatria – non sapevano cosa fosse Internet. Era il 1998, e non bisogna stupirsi più di tanto, considerato che a quei tempi, che a noi sembrano giurassici, solo un italiano su quattro possedeva un computer. Trentasei italiani su cento scrivevano e impostavano lettere con regolarità, la email era ancora scarsamente utilizzata, ma la sua inevitabile diffusione fu un colpo per Popotus. La corrispondenza con i lettori diminuì drasticamente: la posta elettronica, quando si hanno otto anni, prevede più intermediari di quella tradizionale. Cambiarono le abitudini dei lettori, e cambiò anche “Popotus” uniformando le due edizioni senza rinunciare a stile e linguaggio, coerenti anche nel terzo numero settimanale che ha esordito la scorsa domenica, a distanza di 25 anni (quasi) esatti.

Del resto quelli erano anni di cambiamenti: la lira fece posto all’euro e della transizione il giornale raccontò gli aspetti tragici e quelli esilaranti, che abbondarono entrambi; diventammo più europei grazie all’applicazione del trattato di Schengen, sentendoci meno stranieri a Lussemburgo come ad Amsterdam. Ma anche più indifesi: a “Popotus” toccò raccontare l’attentato alle Torri Gemelle, in quell’11 settembre 2001 che non avremmo dimenticato più, convincendo i suoi piccoli lettori che è normale aver paura, eccezionale non cedervi. Che i fanatici sono una minoranza, le persone di buona volontà una moltitudine. Che il male sa essere banale, ma il bene non lo è mai.

I bambini di allora si chiamavano Marco, Andrea, Elena e Chiara, i nomi preferiti dai genitori per i loro figli. Sofia, Aurora, e Giulia ancora dovevano nascere insieme ai tanti Leonardo e ai Lorenzo che oggi popolano le neonatologie. Come i loro coetanei di oggi preferivano la pasta al riso, la carne al pesce e la verdura la lasciavano nel piatto. Speravano di avere una famiglia e di diventare maestre e calciatori. Non uno stereotipo, ma i sogni dell’infanzia confessati con ingenuità: 8.146 disegni arrivarono in redazione a fronte di un concorso organizzato dal giornale. Con un titolo dei più classici: “Cosa farò da grande”. Eppure, quei lettori pronti a proiettarsi nel futuro, rivendicavano con orgoglio la loro condizione di bambini: qualche nonno chiese, da fedele abbonato, il cambiamento della testata. Con quel sottotitolo – «giornale di attualità per bambini» – era difficile far digerire “Popotus” a chi bambino, pur essendolo ancora, non si sentiva più. Meglio ragazzi, fanciulli, giovani lettori. Fu chiesto un consiglio ai diretti interessati, invitandoli a scrivere, dicendo la loro. Risposta unanime: siamo bambini e ce ne vantiamo. Tipetti tosti: erano e sono i nostri lettori e ce ne vantiamo.