Opinioni

Tunisia (e non solo): via lenti rosa e nere. Un'altra politica mediterranea

Riccardo Redaelli giovedì 5 agosto 2021

Per molti anni abbiamo guardato alla Tunisia con gli "occhiali rosa" di chi, dinanzi ai disastrosi risultati delle rivolte arabe di dieci anni fa, pomposamente chiamate con il termine di "primavere arabe", cercava una transizione politica di successo che rendesse meno tetro il quadro di guerre civili, catastrofi umanitarie o rapidi ritorni a sistemi autocratici. E in effetti, a Tunisi, lungo questo decennio, tutti gli aspetti formali del sistema democratico sono stati rispettati, con elezioni politiche e Governi di coalizione che rispondevano al Parlamento. L’improvvisa (apparentemente) mossa del presidente Kais Saied di licenziare il Governo e di sospendere il Parlamento è suonata quindi come una sorta di colpo di stato, tanto che in molti hanno subito letto quanto va succedendo in Tunisia come una riedizione della presa del potere dell’allora generale Abdel Fattah al-Sisi in Egitto nel 2013, con la destituzione (e l’arresto) del presidente islamista Mohamed Morsi.

È tuttavia sempre bene essere prudenti nel rincorrere facili analogie, quando si affronta la complessità dei meccanismi politici del Medio Oriente. Perché se è certo vero che la decisione del presidente tunisino appare come una interpretazione spericolata dei suoi poteri, è altrettanto evidente come egli sia stato eletto proprio per la sua piattaforma politica radicalmente populista e anti-sistema: Saied non ha mai fatto mistero di non credere in un sistema partitico percepito come corrotto e incapace e di volerlo modificare, «lavorando dal suo interno», come aveva dichiarato un suo collaboratore già nel 2019. Ma se il presidente ha potuto muoversi in modo così estremo, sospendendo di fatto il sistema parlamentare, è perché la giovane democrazia tunisina mostrava segni evidenti di degenerazione: nessuna forza politica – e tanto meno il partito islamista Ennahda, che pure godeva dieci anni fa di un forte consenso – è stata capace di interpretare le richieste di cambiamento che venivano dalla rivoluzione del 2011.

L’inadeguatezza della nuova classe dirigente, quali che fossero il colore e l’orientamento, è divenuta tragicamente evidente con la terribile crisi economica e con l’emergenza pandemica, ora esplosa a livelli pressoché insostenibili, di questi anni.

È assolutamente chiaro come la Tunisia, oggi, stia su un pericoloso crinale e come non possa essere lasciata sola a gestire queste emergenze. Ma come dovrebbe porsi l’Europa: considerare la mossa del presidente come un colpo di Stato e quindi rifiutare aiuti e collaborazione o indulgere nel vecchio vizio di ritenere che, in Medio Oriente, un dittatore in fondo ragionevole faccia tutto sommato comodo? Entrambe le strade sarebbero inadeguate. La prima risposta è sicuramente quella di aumentare il sostegno, finora troppo blando, alla popolazione tunisina, che ha bisogno non solo dei tradizionali programmi europei di cooperazione, ma di un’iniziativa immediata per l’invio di vaccini e di sostegno sanitario. La seconda è avviare un dialogo con il presidente tunisino, facendogli capire come le sue decisioni future saranno valutate con grande attenzione: Saied dice di aver voluto una sospensione del Parlamento eletto per gestire l’emergenza? È bene che questa sospensione sia temporanea e non sia la premessa per creare un nuovo sistema autocratico. Allo stesso tempo, tuttavia, è tempo di prendere atto che la mera adozione formale dei princìpi democratici (elezioni, multipartitismo, governo con fiducia del Parlamento) non garantisce la stabilità, quando – come troppo spesso avviene – le strutture formali della democrazia vengono manipolate da élite, ora tribali ora etno-religiose o espressione degli apparati militari e burocratici.

Certo non una strada agevole, che soprattutto ci impone di tornare a guardare in modo sistemico, come Unione Europea, a quanto avviene nel Mediterraneo. Da troppo tempo siamo infatti distratti e riluttanti a ripensare le nostre strategie e le nostre politiche verso questa parte di mondo; al quale - con buona pace di tanti populisti europei e dei loro 'occhiali nero pece' - siamo intimamente e inevitabilmente collegati.