Opinioni

Questo Anno della Fede. Più duro, essenziale

Vittorio Possenti giovedì 18 ottobre 2012
​La porta della fede che introduce alla comunione con Dio è sempre aperta, eppure pochi sembrano valicarla. L’Europa è postsecolare nel senso che la secolarità delle istituzioni è acquisita, ma non si arresta la secolarizzazione delle coscienze. Questa diffusa percezione è ribadita da Benedetto XVI: «Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se a essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità… tutte le altre riforme rimarranno inefficaci» (22 dicembre 2011). Tale diagnosi è alla base dell’Anno della fede, promulgato dal Papa. Questi riprende un’intuizione di Paolo VI che indisse e chiuse l’Anno della fede di allora (1967-68), nato dalle crescenti preoccupazioni del Pontefice per le condizioni della fede nella Chiesa. La situazione spirituale è da allora molto mutata, ma non è cambiata la difficoltà di ottenere un ascolto del Vangelo dagli europei. Anzi il contesto è divenuto più difficile. Ai tempi di Paolo VI era il contenuto stesso della fede a essere in questione, tanto è vero che l’anno della fede si chiuse con la proclamazione del "Credo del popolo di Dio", quasi a ribadire la portata reale della fede ecclesiale. Non si era però ancora giunti all’indifferenza.Il contenuto della fede era sì minacciato da teologie improvvisate (chi non ricorda i pretesi "vangeli dell’ateismo cristiano"?), ma Dio rimaneva una possibilità. Oggi l’indifferenza religiosa di tanti europei è in aumento. Una parte di loro è come se dicesse: con Dio o senza Dio non cambia nulla. La mancanza di Dio non è avvertita come una mancanza. È la vittoria – per ora – dell’irreligione occidentale, secondo la quale anche se Dio esistesse, poco o nulla cambierebbe nelle nostre vite. Dio potrebbe anche esistere, ma non c’entra con noi che procediamo a edificare le nostre vite del tutto indipendentemente da Lui. Tutti i problemi si regolano e devono regolarsi esclusivamente tra gli uomini. Tutto ciò significa qualcosa di eccezionalmente nuovo e sconvolgente. Il compito di annunciare il Dio incarnato e il Vangelo di Gesù Cristo incorpora oggi una difficoltà ben maggiore di quella incontrata dagli apostoli all’epoca della primissima evangelizzazione due millenni fa. Antiochia, Corinto, Atene, Efeso, Roma iniziavano ad ascoltare il messaggio cristiano di cui ignoravano tutto, ma il compito era agevolato da una sensibilità religiosa diffusa che predisponeva all’ascolto. Il politeismo attestava che gli dèi erano ben presenti; l’attesa religiosa nell’area ellenistica e romana era alta, e con essa il desiderio di qualche forma di salvezza. Era l’epoca in cui Seneca scriveva: «Quando parliamo dell’Altissimo, che abita questo meraviglioso universo, dobbiamo entrare nel sacro tempio del cosmo con uno spirito di assoluta devozione». Da tempo ci troviamo in una condizione in cui gli dèi sono fuggiti e l’indifferenza religiosa notevolmente aumentata.È il tempo dell’acedia, del tedio di Dio e dell’essere cristiani, che disegna il profilo spirituale di una parte degli europei. È l’orientamento della volontà e del desiderio che è mutato. L’uomo è troppo impegnato nell’aldiqua per pensare ad altro: egli ritiene di poter edificare la città dell’uomo senza Dio, anche se finirà per costruirla contro l’uomo. È singolare che i pur necessari incontri tra credenti e non credenti vertano più sull’uomo che su Dio, il quale rischia di diventare un predicato dell’umano.L’auspicio di Gramsci sull’avvento di un nuovo senso comune nutrito dalla filosofia della prassi (marxismo) si è avverato con un’eterogenesi dei fini, conducendo alla vittoria di quel senso comune propagandato dallo scientismo e dal naturalismo, che sembra costituire la nuova evidenza primaria cui tutto il resto deve inchinarsi. Ciò comporta conseguenze molto insidiose: il prezioso richiamo alle esperienze elementari del nascere, del vivere e del morire che ci costituiscono come esseri umani, e che è stato un vettore fondamentale di evangelizzazione, è a rischio perché soffocato dalle nuove evidenze del potere tecnico. Non abbiamo più bisogno di essere salvati da Dio, ma ci salviamo da noi stessi con la potenza della tecnica. Un grande intellettuale laico disse trent’anni fa: perché dovrei essere salvato?Non solo dunque il contenuto della fede non è più un presupposto comune, ma per tanti neanche lo è il sentimento che ci debba essere una domanda religiosa. Il clima religioso di una parte degli europei non è l’antiteismo e forse neppure l’ateismo, sembra l’irrilevanza del problema-Dio, una sorte di irreligione naturale. L’anno della fede 2012 affronta una situazione più difficile del precedente anno della fede e con scarsi punti di riferimento nella vicenda passata dell’evangelizzazione. Ciò comporta la necessità di un entusiasmo e vigore nuovi nel trasmettere la fede e nel risvegliare i cuori.