Opinioni

Il piano lavoro di Renzi fuori dal genericismo. Bene, entriamo nel merito

Francesco Riccardi venerdì 10 gennaio 2014
Alzi la mano chi non vorrebbe che l’energia per le imprese costasse il 10% in meno. O che l’Irap venisse ridotta. E c’è qualcuno non disponibile a investire sul Made in Italy, preferendogli magari il Made in China? Ci sono persone convinte che il diritto del lavoro debba essere ulteriormente complicato, anziché semplificato e sburocratizzato? Difficile, insomma, dissentire dalla bozza di piano lavoro presentata l’altra sera da Matteo Renzi. Il suo Jobs Act (partito al singolare, nell’ultima versione ha acquistato la s del plurale, forse anche questo un segnale...) è in fondo un’elencazione di alcuni dei nodi che attanagliano il nostro sistema economico da lunga pezza, assieme ad alcune indicazioni di massima – molto, molto di massima in verità – di come potrebbero essere sciolti. È intuitivo, infatti, che il costo dell’energia per le imprese può essere ridotto solo se si individua una compensazione. E così pure, per restare a un esempio simile, giusto che le imposte sul lavoro possano e debbano essere ridotte aumentando contemporaneamente quelle sulle rendite finanziarie. Ma il quanto e soprattutto il come, per quali risparmiatori o investitori, si realizza questo trasferimento di prelievo fa la differenza, quasi più del principio stesso. Questa indeterminatezza pesa in particolare quando si passa a discutere più propriamente di lavoro.Sulla questione centrale del “Contratto prevalente a tutela crescente” il piano di Renzi non va al di là del titolo, evidentemente per non far infiammare subito le polemiche sul totem dell’articolo 18, che già stanno surriscaldando il Pd e la sinistra. Non è differenza da poco, però, se con quel termine si pensa a un contratto di inserimento nel quale la libertà di licenziare per l’imprenditore sia limitata al primo triennio (una sorta di prova lunga) come nell’ipotesi avanzata anni fa dagli economisti Boeri e Garibaldi. Oppure se ci si muova, sulla falsariga del pensiero di Pietro Ichino, verso un sistema più complesso nel quale la reintegra in caso di licenziamento illegittimo viene limitata alle sole discriminazioni e in tutti gli altri casi viene previsto solo un risarcimento monetario, assieme a un piano di ricollocamento. E così pure è fondamentale capire quali e quante forme contrattuali vengono previste, perché pensare che una e una sola possa adattarsi a tutte le imprese, per tutte le mansioni, significa non aver compreso la complessità dei rapporti di lavoro. Semplificare si può, forse si deve, ma per favore non si continui a propalare la “bufala” che esistano 40 tipologie contrattuali diverse.E attenzione a non bloccare nuovamente le occasioni d’impiego, seppur a termine, come già sperimentato con la riforma Fornero. Ancora, una legge per la rappresentanza sindacale – che fissi cioè il grado di rappresentatività di ogni sigla e in base a questo il diritto a firmare i contratti – è utile sul piano teorico, ma se non valorizza in chiave sussidiaria la capacità di autoregolarsi e riconoscersi reciprocamente delle parti sociali rischia di provocare più danni che benefici. Stesso discorso per la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese: una svolta che auspichiamo da tempo. Un conto, però, è costruire le condizioni perché nasca dal basso, tutt’altro effetto avrebbe invece un’imposizione dall’alto con l’obbligo per le aziende private di avere, tutto a un tratto, nel consiglio d’amministrazione (non di sorveglianza...) uno o più rappresentanti eletti dei lavoratori (anche azionisti?). E si potrebbe parlare ancora dei rischi di uno spoil system assai costoso con la scelte dei dirigenti pubblici a termine. O di come finanziare il sussidio universale di disoccupazione e far sopravvivere, però, una qualche forma di cassa integrazione per non dover costringere le aziende a licenziare gli operai ad ogni fermata produttiva... Insomma, le incognite al momento superano le certezze. Come ha efficacemente sintetizzato ieri Renata Polverini: «Il Jobs Act sembra una visita all’Ikea... quando torni a casa, ti accorgi che i mobili sono difficili da montare!». Vero è che Renzi ha parlato di «bozza sulla quale raccogliere critiche e suggerimenti». Indicando – per un nuovo Codice del lavoro – il termine di 8 mesi, ben al di là dunque della prima finestra utile per votare a maggio, assieme alle europee (un messaggio a Letta e agli alleati di governo). Ci sarà tempo di discutere e fare, dunque. Per ora Renzi stesso – dopo qualche rischiosa divagazione – ha raggiunto un primo risultato importante: rimettere questi temi al centro dell’attenzione politica. Bene, adesso si lavori davvero a un cambiamento preciso, concreto e veloce. Astenersi perditempo e nostalgici delle ideologie.