Opinioni

Le strategie militari in Europa. L'esercito europeo, un sogno naufragato

Francesco Palmas sabato 26 settembre 2015
La sognavano, i padri fondatori. Ma è naufragata nell’oblio, insieme alle velleità di seri progetti comuni. Se l’Unione monetaria scricchiola, la difesa europea annaspa. Anzi, non è mai decollata. Non ha una strategia politicomilitare che la sorregga, né mezzi autonomi.  Peggio ancora: la dinamica propulsiva si sta affievolendo. Quando gli uffici dell’alto rappresentante, Federica Mogherini, presenteranno la nuova strategia di politica estera dell’Unione, saremo nel giugno 2016. Sappiamo già che il documento non somiglierà affatto a un Libro Bianco della difesa europea.  Mancano i soldi, si perdono capacità e investimenti. Ognuno procede per conto proprio, perfino nella ricerca tecnologica. Il 'cenacolo' ad excludendum anglo-franco-tedesco è foriero di chiacchiere più che di fatti. Gli eserciti dei tre 'grandi' declinano, come il loro peso specifico nel mondo. Negli anni 20 o 40 la Francia poteva schierare, certamente sbagliando, 100mila soldati professionisti in Marocco, poi in Indocina. Quella odierna, più ricca e popolosa, è ben sotto i 20mila uomini oltremare.   Fino al 2003 Londra poteva piccarsi di foraggiare con 30mila uomini un’operazione complessa come Iraqi Freedom. Schierava una portaerei, unità anfibie, un’intera divisione terrestre e un pacchetto di forze aeree. Oggi non sarebbe più in grado di farlo. Non avrà nessuna portaerei fino al 2019 e dei 500 velivoli d’inizio anni ’90 non rimane che un ricordo sfumato. I 192 caccia-bombardieri d’oggi scenderanno a 127 nel 2019, proprio quando s’inaspriscono le tensioni nell’Est europeo e le frontiere meridionali dell’Unione sono insidiate dal collasso di alcuni Paesi africani. Russia e Cina si stanno riarmando, ricercando numeri e volumi di fuoco superiori a quelli europei. Sebbene nessuno ci minacci apertamente, va rilevato che occorrono decenni per rimediare a un’inferiorità militare e 'riconfigurare' le forze. Quelle austriache, ad esempio, sono allo sfascio. Con il nuovo piano di tagli Vienna avrà solo una parvenza di esercito e non potrà assicurare nemmeno le missioni di polizia nei cieli nazionali. Nel 2015 avrà un bilancio per la difesa dello 0,55% del Pil.   Il Belgio è nella stessa situazione. Sono diminuite perfino le risorse per le missioni: il Belgio non ha potuto fornire uomini all’operazione europea in Centrafrica (Rca), un vero smacco per una Forza Armata che ha nella conoscenza del teatro africano uno dei suoi punti di forza. L’Europa ha rimediato nell’occasione un’altra sonora figuraccia, non certo per colpa del Belgio: doveva trovare 40 uomini in tutto, oltre ai 20 messi a disposizione dai francesi. Ma nessuno si è mobilitato, al punto che per completare gli organici Bruxelles si è appellata a serbi e georgiani che dell’Ue nemmeno fanno parte. Nel Vecchio continente c’è più di un milione di soldati sotto le armi. Ma quelli che servono attualmente sotto la responsabilità dell’European External Action Service sono poco più di 3mila, disseminati fra Balcani, Corno d’Africa, Mali, Rca, Oceano indiano e mar Mediterraneo. La situazione nella vicinissima Libia dovrebbe suggerire l’urgenza di una coesione militare europea. Invece, chi conosce un po’ le questioni militari suggerisce che la creazione di un esercito comune è del tutto chimerica, almeno oggi. Tutt’al più si riesce a giustapporre unità poco incisive, dando loro un comando multinazionale unico, come avviene con l’Eurocorps.   Servirebbe almeno un pilastro europeo della Nato. E invece picche, anche perché la crisi di risorse ha galvanizzato i nazionalismi più che le spinte federative. Dopo anni di tagli, la riduzione della spesa continua. Secondo dati alleati, i Paesi europei della Nato dedicheranno quest’anno alla difesa 227 miliardi di dollari, contro i 270 del 2014 e i 269 del 2013. Sotto la media del 2% del Pil, auspicata in tutti i vertici intergovernativi e sempre disattesa. In Italia non ci sono più risorse. Nemmeno per l’addestramento, che significa personale meno preparato e maggiori rischi in missione. Senza l’appoggio statunitense, i transalpini non sarebbero andati da nessuna parte, nemmeno in Mali. La tanto blasonata brigata franco-tedesca è un mero affiancamento di forze, inficiate da un basso livello d’interazione umana, tecnica e procedurale, nonostante 25 anni di esistenza. Nel mondo di oggi i singoli Paesi europei non hanno i favori del numero. E dire che a inizio millennio il Consiglio europeo pensava ancora a una forza comune di reazione rapida. Settantamila uomini per svolgere un ampio spettro di missioni, non certo un’operazione complessa di peace enforcing (leggi: guerra). Per quella sarebbero serviti 160180mila uomini, 400 velivoli da combattimento e un centinaio di navi militari, messi a fattor comune.   Nel 2015 l’Ue non ha nemmeno un suo stato maggiore interforze operativo, a causa dei veti britannici. Ha optato per modesti gruppi tattici da 1.500-2.500 unità, operativi ormai da 8 anni, ma mai impiegati. Le occasioni non sarebbero mancate. Ne ricordiamo almeno quattro: in Congo (2008), Libia (2011), Mali (2013) e Centrafrica. A Bangui c’erano tutte le condizioni per un possibile intervento europeo, a partire dalla tremenda crisi pre-genocidaria. L’Ue avrebbe potuto circoscrivere la missione alla capitale o all’Ovest del Paese, limitando i tempi di permanenza. Avrebbe goduto dei favori dell’Unione africana, delle Nazioni Unite e di un consenso internazionale mai così convergente. E invece nulla. Anche le cooperazioni strutturate permanenti sono rimaste lettera morta. Mentre non c’è spazio per il multilateralismo. I programmi comuni nel settore dell’armamento terrestre si contano sulle dita di una mano. E i 17 miliardi di fatturato del settore garantiscono appena la sostenibilità dei costi di sviluppo, produzione e manutenzione dei mezzi, perché vi sono troppe sovrapposizioni e duplicazioni.   Dagli anni 90, il comparto perde operai a iosa, è farraginoso e inefficiente. Conta 23 programmi diversi di acquisto di blindati e non meno di 15 produttori che monopolizzano i rispettivi mercati interni e si fanno concorrenza nell’export. Idem per navi e aerei. Depauperata e depotenziata, l’Agenzia europea per la Difesa non ha potuto promuovere che collaborazioni di nicchia, perpetuando quella mancanza di equipaggiamento comune che fa lievitare i costi delle operazioni 'congiunte'. Nelle missioni di peace-keeping che li vedono impegnati, gli 'europei' impiegano otto tipi diversi di elicottero da combattimento e da trasporto, quattro di carri, tutti con pezzi di ricambio differenti. Lo status quo non è più sostenibile. Nessuno s’illuda che l’intesa fra i due grandi industriali transrenani, Nexter e Kmw, semplifichi di molto il quadro. Parigi e Berlino dovranno vedersela con britannici, italiani, finlandesi, ispano-americani e svizzeri. Sarebbe forse il caso di promuovere qualcosa di simile al Buy American (compra americano) o al Make in India (prima l’India) per adeguarci all’andamento generale.  I governi europei continuano a comprare troppo materiale militare dalle industrie statunitensi. Importiamo più dagli Usa che dai partner europei. Con un grande paradosso: mentre noi acquisiamo il 30% dei sistemi oltreatlantico, il Pentagono si approvvigiona da queste parti soltanto per l’1%. Il caso del cacciabombardiere F-35 è emblematico, visto che i Paesi europei non sono riusciti a coordinare nemmeno le acquisizioni, per negoziare da una posizione di forza. Ognuno si è legato per conto proprio, disperdendo risorse e competenze in un settore strategico. Un esercito europeo per garantire la pace dove necessario non è un lusso, ma una mossa utile e previdente.