Opinioni

I personaggi del presepe e le nostre storie/4. Il fuoco dello zio (un dono per Dio)

Alessandro D'Avenia mercoledì 23 dicembre 2015
Tra i personaggi del presepe della tradizione siciliana che ho raccontato in queste settimane, quello che mi affascina di più in questa notte di veglia è "Zu Innaru", zio Gennaio o Gennaietto. Si tratta di un vecchio pastore, che riscalda il suo corpo infreddolito al fuoco, che poi offre anche a Maria e Giuseppe, perché possano riscaldare il Bambino. Per quanta simpatia mi abbiano sempre ispirato bue e asino, non mi ha mai convinto la versione idilliaca che fosse il loro fiato a riscaldare il Bambino: più che un conforto sarebbe stato un supplizio, che Maria non avrebbe permesso. Era necessario il fuoco e questo fuoco, nell’immaginazione di chi fa il Gioco del Mondo che è il Presepe, è procurato da un "inutile" (credo che lui così si sentisse) vecchio che porta il nome del primo mese dell’anno, il primo mese del primo anno dell’era cristiana. Lo Zio Gennaio è un pastore provato da fatica, anni e freddo. I pastori sono disprezzati nel mondo ebraico, a causa del loro lavoro che li tiene lontani dai riti della legge. Gli è rimasto solo il fuoco in questa notte di stelle a riscaldargli un po’ il cuore e le membra, chissà dove sono sua moglie e i suoi figli, chissà se si ricordano ancora di lui. Sogna a tratti di palazzi confortevoli e giacigli morbidi, di sorrisi e di abbracci, ma quando si sveglia e vede il suo gregge sente tutta la fatica della sua vita ripetitiva e votata solo a finire, e cerca di riaddormentarsi in fretta, dopo aver attizzato il fuoco, per lenire almeno il gelo del corpo se non quello del cuore. Ma all’improvviso una coppia in cerca di riparo con una giovane ragazza incinta scuote il suo torpore, e offre a un ragazzo forte e stanco, di nome Giuseppe, il suo fuoco per riscaldare l’ambiente inospitale di uno di quei ripari per animali scavati nella roccia, che lui conosce bene. Il fuoco è ciò che, nel mito, Prometeo aveva strappato agli dei, ribellatosi a Zeus, che, deluso dalla razza umana, aveva deciso di sterminarla e sostituirla. Prometeo invece lo dona agli uomini insieme a tutte le arti, proprio perché possano affrancarsi dal controllo degli dei. Per questo Zeus lo condanna al terribile supplizio: incatena Prometeo a una rupe e il suo fegato, nel mondo antico organo deputato a raccogliere il sangue e quindi la vita stessa, viene divorato dall’aquila del padre degli dei, per ricrescere il giorno dopo ed essere nuovamente distrutto, provocando una continua morte in vita. Gli dei non sopportano che agli uomini vengano concessi i privilegi esclusivi del mondo divino, né che gli uomini siano liberi. Al contrario, nel Presepe non ci sono divinità invidiose, ma c’è un Bambino che è il Salvatore. Almeno così affermano gli angeli ai pastori, che chiedono un segno. Lo potranno riconoscere così: è in una mangiatoia. Il segno perché Dio si faccia riconoscere è di fatto un "non segno": la vita quotidianissima di una giovane famiglia in stato d’emergenza, un Bambino deposto in fasce in un presepe. Il segno di Dio è l’ordinario, un segno tenue come la brezza in cui Elia riconobbe la presenza del Signore, che non era in nulla di eclatante. Con questo segno silenzioso e invisibile, una famiglia qualsiasi in un luogo qualsiasi, è abbattuta la separazione tra sacro e profano, il profano anzi diventa il luogo del sacro e del mistero, purché si abbiano occhi per vedere. L’ordinario è divenuto straordinario, Dio si è fatto uomo, adesso l’uomo può farsi Dio. Dio si è fatto Bambino e in una sola notte i Bambini diventano la vetta della dignità umana, quando nella lingua della grande cultura occidentale, il greco, la lingua dei Vangeli, i bambini sono indicati solo con l’articolo che si usa per le cose. A differenza degli dei antichi, che ci tenevano alla loro separazione, questo Bambino-Dio non ha neanche il privilegio del fuoco, viene al freddo di una notte di stelle, in un riparo improvvisato, perché nella locanda non c’è posto. Dio non solo non tiene il fuoco per sé, ma non lo ha e lo deve mendicare all’uomo, dall’ultimo degli uomini: la situazione è ribaltata. Per questo lo zio Gennaio è il mio eroe, perché non è un titano che inveisce contro il cielo, ma un povero pastore infreddolito e disperato, che presta il suo fuoco perché non ha altro. Non sa che sta prestando il suo fuoco a Dio, ma Dio lo sa. La scena ricorda le parole di uno dei personaggi di "Vita e Destino" di Vassilij Grossman, Ikonnikov, che riferendosi alla disfatta di nazismo e comunismo, distingue il Bene con la maiuscola che le ideologie degli uomini vogliono imporre con i loro mezzi e si trasforma in sangue, soprattutto di vecchi e bambini, dal bene piccolo e quotidiano: «E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile. La bontà delle guardie che, a rischio della propria libertà, fanno avere a mogli e madri le lettere dei prigionieri. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla». Credo sia questa la rivoluzione silenziosa cominciata in questa notte, quella della «bontà illogica», che porta ad amare persino il nemico e a pregare per il persecutore. Lo zio Gennaio è il primo uomo a ricevere la grazia divina di poter donare (restituire) quel poco che ha a Dio stesso. Egli non lo sa, ma quel gesto senza testimoni fatto ad un "piccolo", lo ha fatto, lui pastore reietto ed escluso da Dio e dagli uomini, al Dio onnipotente, creatore e signore del cielo e della terra. Lo zio Gennaio si sente finalmente utile: qualcuno ha bisogno di lui. Dio ha bisogno di lui, con il suo fuoco e con le sue arti, tanto disprezzate da tutti. Al contrario di Prometeo non deve strapparle agli dei invidiosi ma, può donarle al Dio che glieli chiede in elemosina per fare la redenzione, che è rendere evidente agli uomini la verità. Il fuoco che il Bambino ci chiede è quello dei nostri talenti, del nostro lavoro, di ciò che ci riesce bene, di ciò che ci appassiona e ci permette di fiorire e far fiorire gli altri servendoli con quei doni, fino a poter dire che questa vita, nonostante tutto, è bella e vale la pena esserci anziché no. Questo pensa zio Gennaio in quella grotta. Questo è il mistero della notte di Natale: Dio ha bisogno di te e me. Fosse anche solo per il nostro piccolo fuoco e la nostra grande stanchezza.