Opinioni

Strategia anticrisi. Perché divisi davanti alla catastrofe?

Marco Tarquinio sabato 22 novembre 2008
Nelle ultime vorticose settimane, da italiani, ci siamo allarmati e autoconsolati ragionando sulla «crisi globale» che ha messo in crisi vecchie e nuove certezze del «mondo globalizzato». Ci siamo consolati con ragionamenti – che hanno persino capovolto quelli in voga fino a poco tempo fa – sulla intrinseca robustezza di un sistema come il nostro, tutto sommato più legato all’«economia reale» che a quella «virtuale». Ma contemporaneamente, e giustamente, abbiamo cominciato a registrare i pressanti segnali di allerta fatti risuonare dalle crescenti difficoltà delle famiglie e del mondo del lavoro e dell’impresa. Non siamo al riparo da nulla, e l’enorme mole del nostro debito pubblico limita drasticamente le possibilità di manovra del governo.Tuttavia, al cospetto di problemi così gravi e di una tempesta che diventa via via più intensa, si è ancora una volta manifestata una cronica incapacità dell’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica. Le forze politiche e sociali non riescono a trovare una lunghezza d’onda e a darsi un metodo di lavoro davvero comuni. E non s’impegnano nemmeno a inviare all’opinione pubblica un messaggio minimamente convergente.Siamo e restiamo così sospesi nell’altalena tra un «tavolo governo-opposizione» che non riesce a trovare gambe e un’improvvisa convocazione di tutte le parti sociali a Palazzo Chigi, tra subitanei e vaghi accenni di reciproca buona volontà tra ministri in carica e ministri ombra e polemiche più sferzanti che mai, tra l’incombente «sciopero generale» di un solo sindacato (il più grande, e il più politico: la Cgil) e incontri selettivi tra il premier e gli altri grandi capi sindacali. Come se una qualunque strategia anti-crisi possa utilmente articolarsi in uno scenario di divisioni, d’incomprensioni e di sospetti politici e sociali. Come se, andando avanti di questo passo, non si accresca a dismisura il rischio di vivere un 2009, che si annuncia già difficilissimo di suo, all’insegna di scontri all’arma bianca in Parlamento, di frenetiche e contraddittorie agitazioni sindacali, di tensioni dagli esiti non del tutto controllabili e prevedibili nel tessuto vivo del Paese.I morsi dell’inverno della recessione che si sta abbattendo anche su di noi sono dolorosi e debilitanti. E per sovrappiù, ieri, il direttore del Fondo monetario internazionale ha ritenuto opportuno farci sapere che sulle nostre economie raggelate potrebbe abbattersi presto una nuova «catastrofe finanziaria». Anche se suona come l’ennesima e tonante dichiarazione di guerra alla fiducia di risparmiatori, lavoratori e imprenditori già ampiamente scossi e provati, è soltanto la conferma di una tendenza tanto drammatica quanto evidente. Del resto, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti non aveva avuto reticenze nell’ammettere, sin dall’inizio, che i mesi che abbiamo davanti covano in sé «un disastro». E se il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi non ci ha di certo nascosto che «il peggio deve ancora venire», il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani non ha avuto esitazioni, appena due giorni fa, a ricorrere all’immagine della «valanga» in arrivo.Ma allora, ci permettiamo di chiedere, se la consapevolezza di quella che un tempo si sarebbe detta la "gravità dell’ora" è così acuta e diffusa, se ministri e garanti e sindacalisti sanno, e certificano, l’ampiezza dell’emergenza che ci incalza, perché mai dai palazzi della politica e dalle centrali sindacali non ci si decide a inviare un univoco segnale di volontà e di forza al Paese? Nessuno deve smettere il proprio mestiere: non chi governa (e ha i numeri per farlo), non chi fa opposizione (e ne ha il dovere), non chi rappresenta gli interessi legittimi dei lavoratori, delle imprese, dei corpi sociali. Ma nessuno dovrebbe rinunciare, o mettere altri nella condizione di rinunciare, alla propria parte di responsabilità verso la comunità nazionale. E chi siede a Palazzo Chigi ha naturalmente un dovere più grande.