Opinioni

Il confronto con il mondo sciita. Perché l'apertura dell'Iran è un'opportunità

Giusto Sciacchitano sabato 23 luglio 2016

Nel settembre 2015 una delegazione italiana di studiosi del diritto penale, ha incontrato a Teheran e a Qom una analoga delegazione iraniana sul tema dei diritti umani in materia penale. L’incontro, voluto dal Ministero degli Esteri e organizzato dall’Istituto superiore internazionale di Scienze criminali (Isisc) di Siracusa, aveva l’obiettivo di affrontare questioni di diritto penale sostanziale e processuale nella realtà giudiziaria dei due Paesi. La discussione è stata aperta e costruttiva; sono stati trattati tutti i temi connessi al processo penale, incluse anche questioni molto sensibili come la pena di morte. A Qom la delegazione italiana ha incontrato il rettore di quella Università (che è il maggiore centro culturale del mondo sciita), l’ayatollah A’arafi. Nel suo lungo intervento, questi ha osservato che tra il mondo musulmano e il mondo occidentale c’è oggi bisogno di un dialogo culturale anche antecedente a quello religioso; nel campo dei diritti umani e della filosofia di essi, ci si deve allontanare dal ritenere che sia giusto solo quello che è propugnato nell’ambito della propria area culturale, ossia dal reciproco unilateralismo mentre, al contrario, si debbono cercare punti di convergenza.

Certamente, ha osservato, ciò che è stato in passato tra occidente e Paesi islamici c’è e pesa, ma deve essere studiato da entrambe le parti con senso autocritico, in un quadro prospettico per avviare un concreto dialogo costruttivo per il futuro; altrimenti si rischia di lasciare il campo agli opposti estremismi e al terrorismo. Tutto l’argomentare dell’ayatollah A’arafi è stato incentrato sulla necessità di un dialogo tra la cultura occidentale e quella musulmana, e soprattutto iraniana per il livello scientifico e filosofico da essa raggiunto; ed è sembrato quasi che egli volesse indicarlo come possibile via per superare le varie e complesse difficoltà che separano i due modelli di vita. Specialmente dopo le stragi in Europa, nel pieno del dibattito dello scontro in molti Paesi sull’arrivo di profughi e migranti, è bene ricordare quel messaggio e cercare di individuare quale può essere l’ulteriore contributo che la nostra cultura può offrire per migliorare il dialogo. Strumento essenziale per affrontare, in una visione più ampia, le tre sfide globali che oggi si presentano contemporaneamente all’intera comunità internazionale: terrorismo, criminalità organizzata, economia.

Noi occidentali negli ultimi decenni abbiamo impostato la nostra politica verso i migranti (che per almeno un terzo sono musulmani) dando loro una possibilità di guadagno, ma senza interessarci dell’aspetto culturale come se le diverse culture, senza altri approfondimenti, avrebbero potuto consentire la pacifica convivenza; questo sistema lo abbiamo chiamato "multiculturalismo" e, in ossequio ad esso, abbiamo aperto moschee nel nostro territorio anche se lo stesso non avveniva e non avviene con l’apertura di chiese nel loro. In realtà il nostro pensiero inespresso era che i nostri valori sono universali e, proprio perché tali, sarebbero stati certamente e facilmente accettati dalle popolazioni che si riversavano nei nostri Paesi. Multiculturalismo, però, dovrebbe essere sinonimo di integrazione reciproca delle diverse culture, che si realizza nell’incontro, nello scambio, nella frequentazione che consente a ciascuno di conservare le proprie identità e tradizioni, ma anche di iniziare un dialogo con quelle altrui partendo dal reciproco rispetto. Questo scambio e questa frequentazione reciproca tra la cultura occidentale e quella musulmana non sono avvenuti, per ostacoli derivanti sia dalle antiche contrapposizioni ricordate dal rettore di Qom, che ancora fanno vedere ai musulmani i nostri Paesi come sostanzialmente ostili e contrari alla loro religione, sia per la mancanza di una adeguata politica culturale che spiegasse loro i nostri princìpi e le regole basilari che essi avrebbero dovuto osservare.

Si verifica così che, da un lato, i musulmani chiedono spesso classi separate per i loro figli per evitare contaminazioni culturali e, dall’altro, vi sono autorità scolastiche che, non volendo urtare diverse sensibilità religiose, credono di facilitare il loro inserimento nel mondo occidentale vietando antiche tradizioni popolari cristiane come il presepe a Natale o, addirittura, come è avvenuto in alcuni Paesi, cambiando nome alle ricorrenze religiose. Non è certamente questo il modo per avvicinare le diverse culture! Solo più tardi abbiamo compreso che la varietà di culture, tradizioni, religioni esistenti nel mondo, pone in discussione il valore universale di alcuni nostri principi, ed è per questo che i due mondi, anziché incontrarsi, vivono sullo stesso territorio in pressoché assoluta separatezza. Il mancato avvicinamento tra le culture è stato certamente facilitato dalla diversa concezione della religione nei due sistemi politici.

L'uomo musulmano, a differenza di quello occidentale, è impregnato di religiosità: i precetti del Corano e i detti del Profeta segnano e determinano tutti i momenti della sua vita; egli non può pertanto comprendere una società e una cultura nella quale non abbia un ruolo l’aspetto religioso. Le nostre autorità civili ritengono invece che, in base alla netta distinzione tra il Trono e l’Altare, questo debba essere lasciato ad altre autorità che sviluppano il dialogo interreligioso. Quest’ultimo in realtà viene approfondito e, tra i musulmani, in particolare con l’Iran (basti ricordare che proprio a Qom è stato tradotto l’intero Catechismo della Chiesa Cattolica presentato poi all’Università Gregoriana). Esso però si sviluppa solo all’interno del mondo religioso, tocca solo i credenti in una religione e non produce effetti nella vita civile occidentale. Una delle conseguenze è che le stragi in Europa sono state compiute da francesi e inglesi di seconda o terza generazione, che evidentemente non hanno accettato il modus vivendi europeo.

he lo stesso pericolo corso in Francia possa concretizzarsi in futuro anche in Italia, è emerso da una recente indagine giornalistica di Karima Moual sui giovani musulmani in Italia; da essa è emerso che questi giovani contestano i loro genitori che in qualche modo si sono integrati (o tentano di farlo), non si sentono più di origine marocchina o egiziana, ma di una società musulmana più vasta che non segue i dettami occidentali. È quindi necessario contrastare il radicalismo religioso, aprire nuove vie di comunicazione con il mondo musulmano avviando una più adeguata politica culturale, accrescere l’attenzione ai sentimenti dei popoli con i quali è indispensabile trovare la pacifica convivenza. Julia Kristeva e Donatella Di Cesare, sono state tra coloro che hanno accettato questa sfida e hanno svolto alcune forti considerazioni critiche sulla impostazione culturale e filosofica del laicismo moderno. Punto principale del loro ragionamento è che, per sottrarre l’islam alla strumentalizzazione del terrorismo, anche noi occidentali possiamo fare qualcosa: per esempio cambiare l’atteggiamento dell’illuminismo che si è costruito in contrapposizione alla religione e rivalutare il patrimonio spirituale del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam giacché se neghiamo il bisogno di credere nei giovani, li lasciamo in preda ai manipolatori di internet.

Le religioni, giudicate dall’alto della ragione illuministica, sono state ridotte a dogmi superflui e dannosi, quasi che non facessero parte del patrimonio culturale dei popoli; e gli effetti sono stati devastanti. In realtà si deve ammettere, con Massimo Cacciari, che la pretesa che la dimensione religiosa scomparisse progressivamente dalla mente dell’uomo, è stata una delle cause dell’abisso che si è aperto tra l’occidente contemporaneo e l’islam. Oggi la nostra cultura laica, proprio in virtù dei suoi princìpi di umanitarismo, di libertà, di uguaglianza, deve approfondire con i musulmani i temi etici che consentano ad essi di sottrarsi alla strumentalizzazione del terrore e trovare nella loro stessa tradizione il riconoscimento che i diritti umani non sono in contrasto con la religione, ma espressione anche del pensiero religioso. Questa nuova e diversa impostazione del nostro pensiero non significa, ovviamente, abbandonare i punti cardine della nostra cultura giacché solo una chiara consapevolezza della propria identità consente di aprirsi al dialogo con diverse culture; significa invece rendere possibile un dialogo che sia, da entrambe le parti, più aperto al "sentire" dell’altro, a far comprendere all’altro che il sacro è tale per tutti, indipendentemente dalla volontà di ciascuno di seguire o meno i dettami di una religione.