Opinioni

Poste in gioco diverse. Siria e Iraq: perché la guerra non si ferma

Riccardo Redaelli mercoledì 9 settembre 2015
Nella guerra che divampa ormai da anni nel Levante sembrano non esserci vincitori, se si guarda al numero sconvolgente di morti, ai milioni di esseri umani cacciati dalle proprie case e costretti alla fuga, alle immani distruzioni, alla frammentazione di Siria e Iraq, alla nascita del califfato jihadista dello Stato Islamico (Is). Tuttavia, le percezioni degli attori locali e internazionali coinvolti in questo conflitto sembrano differire notevolmente, dato che le considerazioni di natura strategica o geopolitica sono purtroppo molto distanti dalle sofferenze delle popolazioni.  È il caso, in primis, dei governi di Baghdad e Teheran, o ancor più dei tanti movimenti arabo-sciiti dell’Iraq. Una porzione consistente di territorio iracheno è ancora sotto il controllo dei fanatici di Is. Ma quanto conta agli occhi dei politici e militari sciiti è soprattutto che le principali città della propria parte religiosa siano state salvate o riconquistate. La liberazione di Jurf al-Sakr, uno snodo fondamentale per le rotte dei pellegrinaggi sciiti, è ai loro occhi più importante della riconquista di una qualunque altra città nelle 'province sunnite' dell’Iraq. La lentezza dei progressi nel riconquistare i territori controllati dal 'califfo' al-Baghdadi inquieta certo i vertici militari, ma è compensata dal successo della mobilitazione della popolazione arabo-sciita. Più preoccupante, per l’Iran, la crisi del regime di Assad, le cui truppe sono ormai stremate. Ma per Teheran, così come per la Russia, l’obiettivo fondamentale è evitare il collasso definitivo di quel regime, impedendo alle diverse opposizioni di prendere il controllo di tutta la Siria. E parimenti per il governo regionale curdo iracheno (Krg), la percezione della guerra è meno negativa di quanto si possa immaginare: i peshmerga hanno combattuto con valore e ripreso la città simbolo di Kirkuk, mentre l’opinione pubblica internazionale si è mobilitata per la difesa dei loro territori. La nascita del califfato terrorista ha infine accentuato la disgregazione irachena, rendendo ancora più evidente l’indipendenza di fatto del Krg.  Per gli attori sunniti della regione, Arabia Saudita e Turchia in particolare, anche se la guerra in Siria non è andata come essi si aspettavano, non tutto sembra negativo. Gli odiati sciiti sono impantanati in un duro conflitto contro l’Is, che li sta logorando, e due Paesi alleati di Teheran sono ormai frammentati. Se poi Damasco dovesse cadere, sia pure nelle mani degli jihadsti di al-Baghdadi, il bilancio diventerebbe in questo senso ancora più 'positivo'. Da parte sua, il califfato terrorista ha dimostrato di sapere reggere, resistendo nel controllo del territorio. Nonostante qualche sconfitta locale, non vi è stato un vero cedimento e continua il flusso di volontari del jihad che permette di sostituire i caduti. Ma soprattutto al-Baghdadi ha gettato le fondamenta per un’amministrazione islamica delle zone occupate: polizia e tribunali religiosi, il tentativo di combattere la corruzione e di fare 'buona amministrazione' con la popolazione sunnita (gli altri vengono cacciati o sterminati) testimoniano lo sforzo di radicarsi nel territorio e di proporsi come modello da replicare in altre regioni.  E infine, con un certo cinismo, anche per i politici occidentali la guerra non va poi troppo male: con i droni si uccidono capi o presunti capi di Is, si procede con bombardamenti in Iraq che dovrebbero sottolineare il nostro attivismo, si evita di inviare delle truppe di terra, come forse saremmo stati costretti a fare fosse caduta Baghdad. Mentre in Siria il guazzabuglio politico e militare ci permette di non scegliere fra il diavolo jihadista e quello di Damasco. Si finge infine di avere un progetto politico, mentre in realtà si vive alla giornata con un occhio ai sondaggi e un altro alla questione dei profughi. Con queste percezioni divergenti e in contrasto, la mattanza di donne, uomini e bambini continua senza un vero freno. Siamo forse meno ciechi di fronte alle sofferenze di un popolo in fuga dal conflitto, come dimostrano le iniziative di questi giorni verso i profughi siriani, ma ancora riluttanti a elaborare un progetto forte per porre fine al massacro.