Opinioni

La trasformazione delle gare. Rossi&Marquez, perché in una corsa di moto possono anche perdere tutti

Massimiliano Castellani martedì 10 novembre 2015
Fine corsa. A Valencia è calato il sipario sul Mondiale della MotoGP 2015, il più velenoso e chiacchierato della storia della classe regina, cominciata nel 1949: pochi applausi, qualche lacrima di gioventù, ghigni a profusione e manciate di riso amaro. Per l’almanacco, gara e titolo vanno allo spagnolo Jorge Lorenzo; per la cronaca, quasi nera, un solo battuto: Valentino Rossi. Eppure se a motore freddo, mettendo il cavalletto ai vostri bolidi (sì, perché abbiamo scoperto che l’Italia oltre che il Paese dei sessanta milioni di ct del calcio ha altrettanti esperti centauri) e senza farvi prendere da 'onde gialle' e turbolenze emotive da fan di Valentino, andate a rivedervi il finale della telenovela spagnola, scoprirete una cosa: hanno (e abbiamo) perso tutti. A cominciare da quel Marc Marquez accusato di aver fatto da 'guardaspalle' del connazionale Lorenzo.   Ma andiamo in ordine di classifica generale. Lorenzo, nonostante a ventotto anni conquisti il suo quinto titolo iridato, non si è rivelato per niente 'Magnifico'. Rossi poteva doppiarlo e mettere in bacheca il suo decimo mondiale, ma comunque a trentasei anni 'Vale' molto più oro di quanto pesa: per gli sponsor, per Sky, per la Dorna (la società organizzatrice del Motomondiale) e per tutti i venditori di gadget della poderosa n. 46. Rossi è l’unico secondo classificato che nell’immaginario collettivo non passerà mai come il 'primo degli ultimi'. Perché finché «Rossi c’è» – come si sgola in telecronaca The Voice Guido Meda – allora ci sarà la speranza che il Circo continui e che il grano – o sterco del diavolo, fate voi – giri veloce quanto una due ruote da 1.000cc di cilindrata. Quelle moto che il giovane Marquez, alias cent’anni di ingratitudine, saprebbe far correre forte almeno quanto Valentino, se invece di onorare il proprio favoloso palmarès (4 mondiali già vinti a soli 22 anni, vittorioso in 50 gare su 132 gran premi) non si fosse inventato un ruolo da bodyguard del vecchio Lorenzo, fino a un anno fa il suo nemico giurato.   Con Marquez e Lorenzo abbiamo fatto l’amara scoperta che anche il motociclismo segue le logiche perverse del calcio, anche se l’unico 'calcetto' lo avrebbe sferrato Valentino sul circuito di Sepang, beccandosi il cartellino rosso del partente dalla coda. Abbiamo toccato con mano, bruciandola, che la MotoGP da sport individuale e quasi monogamo – si sposa il tifo per un solo pilota a prescindere dalla nazionalità – può trasformarsi all’occorrenza e allo scopo di danneggiare gli altri (in questo caso Valentino, l’italian stylist dell’universo motoristico) in un deprecabile gioco di squadra, con tanto di 'biscottone' misto. Neppure una leggenda vivente come l’inarrivabile Giacomo Agostini (15 mondiali in bacheca quando si gareggiava nello stesso giorno in 250, 350 e 500) aveva mai visto prima un simile filmaccio horror. Scena madre: un pilota Honda (Marquez) che fa di tutto per far vincere un altro della cuginastra Yamaha (Lorenzo) e ci riesce.  A Valencia addirittura la tacita combine per ostacolare Rossi e garantire il successo a Lorenzo ha offerto anche la variante al plot: la Honda di Marquez che sbarra il passo a quella del compagno di squadra Dani Pedrosa. Il popolo dei 'neocentauri' dell’ultima domenica ha visto, censurato con sdegno e poi presa la parola nel dibattito sui social, schierandosi con la nuova forza politica nazionale, l’#hashtag «Io sto con Valentino». In questo pasticciaccio della via valenciana di buono c’è che nell’autunno caldo di un’anomala estate di San Martino l’orgoglio nazionale è sceso in piazza: bandiere gialle al vento, si è dato appuntamento davanti ai maxischermi schierati dalla capitale morale, Milano, fino a Tavullia. In diecimila hanno risposto alla marcia sul borgo del 'Dottore' del Montefeltro che questa volta manca la laurea e per un giorno si deve consolare con quella honoris causa che generosamente gli conferì qualche anno fa la facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino. Una laurea in comunicazione, materia in cui Rossi è un autentico fuoriclasse. Un mago del marketing, un avanguardista del simbolismo e anche un oratore sopraffino che in vent’anni vissuti sempre di corsa, con una vita spericolata degna di Steve McQueen, ha fatto di questo sport un’arte spiegata al popolo.   La conferma arriva da nostra sorella tv. Tra i tanti record che un giorno potrà tramandare ai posteri, 330 GP, 112 vittorie, 211 podi (5.418 punti) e 61 pole, Rossi aggiunge anche quello degli ascolti tv: quasi 10 milioni di telespettatori in Italia, il 47,6% di share (12.232.850 spettatori unici), per la diretta di Sky (in chiaro su Cielo). Il cielo sarà sempre più blu, come la sua tuta, fino al giorno in cui Valentino avrà voglia di fare bagarre con i suoi piccoli cloni crescono della premiata ditta Lorenzo&Marquez. Due piccoli folletti che hanno sfidato e beffato ma, badino bene, non con il crisma dell’hidalgo e tanto meno dell’hombre vertical, l’eterno Peter Pan Valentino. Il quale qualche errore lo ha fatto ed ha ammesso la colpa: «Non aver chiuso il Mondiale a Phillip Island e Misano». E poi «essere caduto nel trappolone», aver perso le staffe dinanzi a quelle due antipatiche canaglie che nel giorno della gloria casalinga si sono beccati persino i fischi della Spagna. Vergüenza. «Imbarazzante Marquez», ripete Rossi che inarca la ruga sopra la barbetta da pesce gatto del ragazzo che si avvia ad entrare nel club dei 'fortyssimi', quello degli splendidi quarantenni.   Forse dieci anni fa Valentino li avrebbe sconfitti tutti con la fantasia, con il sorriso guascone del fumetto vivente disegnato dalla matita di Manara. Ora invece si scopre triste, vittima di un’assurda tresca che è un po’ la sintesi di quella «vita» che canta il suo omonimo Rossi, Vasco, «è tutta un equilibrio sopra la follia». Ed è la tristezza che prova chi scrive pensando a quell’angelo caduto in volo di Marco Simoncelli. Il 'Sic' se fosse ancora qui avrebbe fatto sicuramente solo e soltanto la sua corsa, e nonostante l’amicizia con il Vale, lo avrebbe preso a sportellate fino all’ultima curva, perché questo è il motociclismo. Uno sport che già da oggi deve sgommare via lontano dai fantasmi delle combine, cancellare in fretta i soliti accordi, riappropriarsi di un’antica tradizione fatta di umanità e di fair play e far capire a tutti i milioni di innamorati della MotoGP che è stato solo un incidente. Le finte alleanze ispaniche, italiche o giapponesi, non esistono e quelle viste sono cessate un attimo dopo che la bandiera a scacchi si è abbassata su un Mondiale 2015 in cui questa volta per chi è sceso in pista, e anche tra chi è stato a guardare, non esistono vincitori, ma soltanto sconfitti.