Opinioni

Lettere. «Perché i Ragazzi del '99 non si ribellarono?»

Marina Corradi venerdì 8 dicembre 2017

Gentile direttore, le invio le lettere dei miei studenti di 5ª C del Liceo Scientifico “Rinaldo Corso” di Correggio. Tali lettere nascono dallo studio della Prima Guerra Mondiale, dalla visita alle trincee Nagia Grom di Rovereto, dalla visione del film “Joyeux Noël”, dalla constatazione dei ragazzi di essere nati nel 1999 esattamente lo stesso anno dei ragazzi del ’99 che morirono a Caporetto e sul Piave nel 1917. Questo ultimo dato è stato il punto di svolta della loro riflessione incentrata su una domanda: e se fosse toccato a noi andare in guerra, noi ragazzi del 2017 figli di Facebook e della nostra società consumista? Avremmo apprezzato i valori dei soldati? Ma erano effettivamente valori vissuti o la guerra per loro fu soltanto un incubo? Siccome leggiamo periodicamente giornali come il suo, ci è venuto in mente di scriverle, perché la carta stampata ha ancora il tempo e il valore del pensiero e della riflessione che sfuggono nell’immediatezza del digitale e, come dicono i miei studenti, «riusciamo a sentire la novità della parola pensata».

Stefano Melli professore Liceo Classico-Scientifico-Linguistico “Rinaldo Corso” di Correggio (Re)

Caro direttore, le scrivo poiché dopo aver letto in classe la lettera di don Milani ai cappellani militari e dopo aver discusso a lungo su questo argomento volevo fare una riflessione sui valori dei giovani oggi rispetto alla loro identità nazionale e ai disastrosi fatti accaduti in passato. All’inizio del Novecento l’idea di nazione era molto più forte rispetto a oggi, infatti pochi decenni prima vi erano state le Guerre d’Indipendenza; tantissimi uomini che credevano nell’idea di una patria unita hanno dato la loro vita affinché ciò accadesse. Freschi eredi di questi valori furono per esempio i ragazzi del ’99, dei quali non molti sopravvissero alla Prima Guerra Mondiale. Ragazzi, giovanissimi, la cui vita è stata sprecata e mi chiedo perché; per forti valori o semplicemente per cause politiche? Per la stupidità umana o per l’orgoglio nazionale? Cosa ha spinto questi ragazzi ad andare incontro alla morte? Perché non si sono ribellati? Tra morire o mettersi contro lo Stato, perché hanno scelto il morire? Non riesco a comprendere i motivi che hanno portato a una guerra simile; posso capire (ma non giustificare) la violenza causata dalla rabbia, ma non la violenza premeditata di un piano malvagio. Sicuramente oggi non abbiamo gli stessi valori che avevano gli uomini dell’epoca e per questo faccio davvero fatica a capire le motivazioni di tutte quelle morti e del perché questi abbiamo accettato ciò, tuttavia dal momento che l’indole umana non cambia nel tempo ma ciò che la circonda sì, temo che una guerra in futuro possa ripetersi. E qui mi sorge una domanda; cosa farebbero nel XXI secolo i giovani italiani se ci fosse una nuova guerra? Andrebbero consci verso la morte, accetterebbero di distruggere vite, di persone simili a loro stessi? Intanto la ringrazio e la saluto

Giulia

Caro direttore, sono una ragazza di diciotto anni. Le scrivo per dirle cosa vuol dire per me la parola “guerra”. Penso che questa orribile parola non possa avere valori positivi ma solo negativi. Ritengo che una battaglia non possa avere dei valori morali, ma solo distruzione, crudeltà e morte. E perché allora cento anni fa a Caporetto ragazzi della mia età sono dovuti morire? Cosa avevano di particolare per lasciare le loro famiglie a diciotto anni e non tornare più? La risposta è: nulla, nulla di particolare, nessun valore per cui dovessero morire ma solo una vita davanti a sé e un futuro ancora da scoprire. Non siamo nessuno per poter porre fine a un’altra vita sentendoci assassini. Avranno ucciso altri ragazzi della loro età, padri di famiglia o futuri papà che avevano promesso alla moglie di tornare un giorno, ma quel giorno non arrivò. E come si sentì quella moglie o quella madre che aveva il proprio caro in guerra? Un pensiero fisso, un dolore atroce, una sofferenza psicologica insopportabile per noi umani perché la natura non ci ha creato per la guerra e per la sofferenza ma per la felicità e la serenità. Eppure questi ragazzi si sono lasciati travolgere dall’orgoglio nazionale, dal valore di patria che non ha lasciato loro scampo. Spero che l’uomo si renda conto presto di quanto dolore stia dietro a tale parola e invece di porgere un mitra al nemico porga la mano per trovare un accordo e fare la pace. Perché ragazzi di diciotto anni dovrebbero pensare al loro futuro e non a come poter sopravvivere in una trincea. Si deve stare vicino ai propri cari invece di partire per un fronte dal quale non si torna più. La ringrazio per l’attenzione

Sara F.

Caro direttore, spesso si sente dire che i giovani d’oggi non valgono: è divenuto un luogo comune, un pregiudizio radicato nella società, ripetuto dimenticando che in realtà ciascuno racchiude un enorme potenziale. Tuttavia è necessario avere l’occasione per realizzarlo, occasione che nella maggior parte dei casi non viene fornita da coloro che si lamentano. La giovinezza è il periodo in cui più si coltivano ideali, in quanto non ci si è ancora dovuti scontrare con la realtà, che puntualmente conduce a un’amara disillusione: siamo infatti animati da amore, solidarietà, onestà, generosità. Dunque è ingiusto ridurci a una massa informe di incapaci. Sono forse gli agi che ci circondano, rendendoci la vita più semplice, ad averci limitati e la società ad averci fatto diventare gli involontari interpreti di un ruolo predefinito, non trasmettendoci ciò di cui rimarca la mancanza e non permettendo di metterci alla prova nel timore di farci soffrire. Limitandosi a una riflessione superficiale, potrebbe sembrare che abbiamo perduto la nostra individualità in favore del conformismo rispetto a un secolo fa, quando i nostri coetanei combattevano mettendo a repentaglio la vita. Cresciuti in un contesto molto diverso probabilmente sognavano allo stesso modo un futuro sereno, di cui non hanno potuto essere artefici perché inglobati in quell’organismo chiamato esercito per spersonalizzarsi, eseguire meccanicamente ordini in nome di ideali patriottici poi smarriti tra gli orrori del conflitto e infrangere i loro valori originari. Non si dovrebbero quindi esprimere giudizi ereditati dalle passate generazioni senza considerare le proprie responsabilità e l’evoluzione del mondo.

Sara S.

Caro direttore, io penso che durante la Prima Guerra Mondiale o comunque in passato gli uomini e anche i giovani combattevano per degli ideali e dei valori che fondano la società di oggi e sono quindi per noi scontati, per questo sembra che non ci siano più valori per cui lottare. Comunque quelli conquistati fino a oggi, ci vengono trasmessi e non saranno persi, proiettati nel futuro attraverso l’educazione che deve responsabilizzare i giovani su questi temi. Va ricordato però che i valori sono stati conquistati con battaglie non violente, come per esempio quella per i diritti della donna, mentre la Prima Guerra Mondiale come le altre guerre era priva di valori, anzi i soldati che erano spesso molto giovani non sapevano neanche il perché delle battaglie che tante volte li portavano alla morte e perciò non c’erano degli ideali per cui andare in guerra. In conclusione penso che ci siano comunque anche oggigiorno degli esempi di forza, ma anche di persone indifferenti ai temi di attualità, così come probabilmente c’erano in passato.

Sara P.

Caro direttore, in onore del centenario della battaglia di Caporetto sarebbe interessante avviare una riflessione riguardo i valori che gli allora ragazzi del ’99 potevano avere e i nostri, ragazzi del ’99 nati un secolo dopo. Con l’avvento della pubblicità e lo sviluppo delle reti di comunicazione, nelle menti delle persone si venne a creare un forte senso di patriottismo, di appartenenza alla nazione, che forse oggi andrebbe ritrovato, si faceva leva sui sentimenti di orgoglio tipici di ogni uomo. È vero che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si era parlato di uno scontro breve, da concludersi in poco tempo, ben presto però tutti si resero conto che il conflitto stava prendendo dimensioni globali. A questo punto i soldati ormai sul fronte potevano tirarsi indietro? Davanti a loro avevano il “nemico”, dietro i comandanti o generali pronti a far sparare nel caso in cui uno di loro avesse tentato la fuga. Cosa diventavano quindi i valori di quei ragazzi costretti a vivere nelle trincee, spesso senza rifornimenti, che vedevano la morte in faccia o dormivano a volte di fianco ai loro amici defunti? Sicuramente in loro la rabbia per quelle condizioni prevaleva su ogni altro sentimento; ma altri valori quali potevano essere? Non credo sia possibile trovarli vivendo in quelle condizioni, ma penso sia necessario riflettere sui nostri valori, noi che viviamo in una società superficiale, che non denunciamo ciò che succede finché non capita a noi, che facciamo finta di essere uomini diversi da quelli che hanno preso parte alla guerra, o l’hanno scatenata. Purtroppo non siamo cambiati, siamo ancora egoisti, l’odio e l’orgoglio ci caratterizzano da sempre. È davvero così lontana da noi l’epoca delle guerre mondiali? Siamo davvero uomini diversi? Saremo in grado di evitare altre guerre? Grazie, cordiali saluti

Giulia G.

Caro direttore, nel ricordo dei cent’anni dalla sconfitta di Caporetto, la nostra classe voleva affrontare con lei la tematica della guerra e dei valori dei giovani. Oggigiorno si pensa che i giovani siano maleducati, privi di valore e indisciplinati. Forse è vero che non c’è più la disciplina di un tempo, tuttavia bisogna considerare che in passato gli uomini non godevano dei privilegi che i ragazzi oggi hanno. Di conseguenza, i giovani adesso perseguono obiettivi diversi e hanno valori diversi, che siano significativi o meno. Eppure è giusto dire che i valori di un tempo siano più importanti di quelli odierni? Possiamo dire che la guerra sia giusta? Possiamo dire che è giusto che ragazzi diciottenni uccidano altri ragazzi della loro età solo perché portano una casacca di colore diverso?

Samuele C.

Caro direttore, sono una studentessa frequentante l’ultimo anno di liceo, nata nel 1999, esattamente un secolo dopo quelle migliaia di giovanissimi mandati forzatamente nel macello della Prima Guerra Mondiale, sul fronte italiano nel 1917. Questa “somiglianza” anagrafica mi ha fatto riflettere, invece, riguardo all’enorme diversità tra le due generazioni ’99. Fa piangere il cuore il pensiero dell’enorme divario tra la normale vita di un adolescente dei giorni nostri e quella che fu imposta ai nostri “coetanei” di inizio Novecento. Un ragazzo diciottenne come lo immaginiamo noi dovrebbe affacciarsi all’età adulta con l’entusiasmo di poter prendere la patente, con il timore dell’esame di maturità, con la voglia di divertirsi al sabato sera, con le utopie e la grinta di chi vorrebbe cambiare il mondo e contestare sempre i “grandi”; dovrebbe passare le giornate a correre dietro alle ragazze e in giro con gli amici. Invece loro, furono mandati allo sbaraglio perché l’Italia ne aveva bisogno, partirono per il fronte senza sapere se e come sarebbero tornati. Molti di loro morirono crudelmente prematuramente, ma gli altri che sopravvissero difficilmente ebbero una vita normale. Noi ragazzi del ’99 di un secolo dopo dovremmo ritenerci fortunati, perché abbiamo la possibilità di vivere i diciotto anni spensieratamente e nell’incoscienza di chi ha ancora un’intera vita davanti, come è giusto che sia. Cordiali saluti.

Malika V.


«Cosa ha spinto questi ragazzi ad andare incontro alla morte? Perché non si sono ribellati? Tra morire o mettersi contro lo Stato perché hanno scelto di morire?», scrive una ragazza della 5ª C, nata nell’anno ’99, ma un secolo dopo. E in poche righe esprime tutta la distanza fra le due generazioni, da un capo all’altro del secolo. Andare a morire, per cosa, e in nome di chi? Non era possibile ribellarsi, ai ragazzi classe 1899? No, forse quei diciottenni non potevano ribellarsi. Erano cresciuti ereditando da padri e nonni il patriottismo risorgimentale, e l’ansia di un’Italia libera e unita; respiravano il nazionalismo dominante di quegli anni, avevano un forte senso di appartenenza alla patria, e erano stati educati a pensare alla guerra come a una cosa giusta, virile, sacrosanta. Ribellarsi? Sarebbe apparsa viltà ai giovanissimi chiamati al fronte, sarebbe stato un ritrovarsi soli mentre tutti i coetanei partivano, fieri e ignari. Ignari delle trincee, del fuoco, del sangue, della morte che si sarebbero trovati accanto, feroce compagna. «Avranno ucciso altri ragazzi della loro età, padri di famiglie o futuri papà che avevano promesso alla moglie di tornare un giorno, ma quel giorno non arrivò», scrive un’altra di voi. Ed è chiaro come nell’arco di un secolo la percezione della guerra sia stata totalmente ribaltata. Gli orrori della Seconda guerra mondiale hanno trasmesso ai figli e ai nipoti e ai loro figli, indelebilmente, una certezza morale: la guerra è il male. Alla sola idea di dover partire per un fronte i nostri figli strabiliano. E tuttavia, fra le righe delle lettere si legge il sospetto che la guerra possa tornare: «È davvero così lontana da noi l’epoca delle guerre mondiali?» si chiede un’alunna. E certo in un momento in cui tornano vivi gli spettri di uno scontro atomico, i timori dei ragazzi della 5ª C non sono assurdi. Curioso però come nelle loro lettere nessuno di loro menzioni l’Europa, la grande costruzione politica del Novecento, ciò che ha allontanato dal vecchio Continente la guerra. Quasi che questa Europa unita non fosse importante, o fosse data tranquillamente per scontata. Ragazzi, vorrei dirvi, se siete figli di settant’anni di pace, è anche perché qualcuno ha voluto e fondato l’Europa. E oggi ci spetta il dovere di continuare in questa unità, contro le voci dei nazionalismi che si alzano sempre più numerose. Non è detto, sapete, che la pace di quest’arco di secolo sia conquistata per sempre. Nessuno ce lo ha promesso, né garantito. L’aspetto di differenza più vistosa fra voi e i ragazzi di cento anni fa è però forse in un senso di appartenenza alla collettività, qualcosa di oggi quasi incomprensibile alla generazione educata nell’individualismo. Riflette una di voi: «Sono forse gli agi che ci circondano, rendendoci la vita più semplice, ad averci limitati e la società ad averci fatto diventare gli involontari interpreti di un ruolo predefinito, non trasmettendoci ciò di cui si rimarca la mancanza e non permettendo di metterci alla prova nel timore di farci soffrire». Non ci avete trasmesso qualcosa, non ci avete messo alla prova, è il rimprovero che si legge, secondo me giustificato. Tanto aspra e tragica fu la prova richiesta ai ragazzi del 1899, quanto apparentemente è poco ciò che si chiede a voi. Ma non fatevi trarre in inganno. La prova della vostra generazione è grande: ritrovare un senso profondo e comune al suo vivere, un senso frantumato da decenni di nichilismo spensierato. Qualcosa che si riflette ormai anche sul piano demografico, come se mancasse tra noi la voglia di continuare la nostra storia. E a Sara S., che scrive: «La giovinezza è il periodo in cui più si coltivano ideali, in quanto non ci si è ancora dovuti scontrare con la realtà, che puntualmente conduce ad un’amara disillusione», vorrei dire: guarda che non è vero, non è necessariamente così. Crescere, non è sempre una disillusione. Il fatto è che bisogna fondare le nostre speranze su qualcosa di fermo come la roccia. Su qualcosa che non ci scivoli sotto ai piedi. Pensaci, adesso: è adesso che ti accingi a costruire. Non ascoltare quegli adulti amari e delusi che ti dicono che da ragazzi si sogna ma che la realtà, quella vera, è ostile. Veniamo al mondo con una domanda grande. Cent’anni fa una generazione abbagliata fu mandata a morire. Voi, nostri figli, fondate ferma la ragione della vostra speranza