Opinioni

Lavoro domestico di immigrate. Perché badanti, tate e colf stanno salvando le famiglie

Michele Zanzucchi martedì 6 novembre 2018

Una badante al lavoro (Ansa)

Un aspetto ancora poco studiato delle ondate migratorie di questi ultimi 30 anni è quello della diffusione in diverse regioni della nostra società mondializzata della pratica di assumere badanti, bambinaie o collaboratrici familiari provenienti da Paesi più poveri. Si tratta di donne, prevalentemente giovani, provenienti oggi soprattutto da Filippine, Sri Lanka ed Etiopia, e qualche anno fa da Ucraina, Moldova, Romania, Bielorussia... Gli uomini delle stesse origini sono invece ricercati dalle famiglie ricche, in particolare dei Paesi occidentali e mediorientali, per altri impieghi domestici, quali autisti, giardinieri o guardiani. Effetto di tale fenomeno, per sua natura precario, è l’aumento esponenziale dei voli per questi Paesi meno sviluppati in partenza dagli aeroporti di Roma, Parigi, Berlino, Riad, Beirut, Kuwait City...

In partenza da Beirut per Addis Abeba in stagione non turistica mi sono ritrovato in aeroporto circondato da centinaia di giovani donne etiopi di ritorno a casa dopo due anni di lavoro: è questo il tradizionale lasso di tempo richiesto dai datori di lavoro ai loro impiegati domestici. Al check-in mi sono visto respingere dalle impiegate della Ethiopian Airlines: «Questo è solo un pre-imbarco riservato alle donne etiopi», che avrebbero «uno statuto speciale», cioè lavorano in Libano tollerate, ma senza essere tutelate da contratti di lavoro regolari, e fornite solo di permessi di soggiorno provvisori. Una di queste donne – viene dal Tigrè, da Adigrat – esattamente due anni fa aveva deciso di partire per permettere al fratello di studiare, visto che il padre era morto in un incidente e la madre era malata: «Faccio la volontà di Dio», mi ha detto sorridente e convinta.

Qualche settimana più tardi ho preso un volo da Dubai per Manila e, ovviamente, nell’aereo pieno come un uovo mi sono ritrovato circondato di donne filippine di ritorno a casa, anch’esse dopo due anni di lavoro. Nel loro vociare ho colto le espressioni della gioia, ma anche il timore di quello che avrebbero trovato: i figli cresciuti in due anni nel corso dei quali queste madri hanno cercato di 'educarli' via Skype o Whatsapp, i mariti latitanti a cui evitano di recapitare soldi per impedire che li spendano in alcol o altro, l’avanzamento dei lavori per la nuova casa costruita con i soldi spediti ai genitori dai Paesi in cui lavorano. La mia vicina, Josephine si chiamava, aveva lasciato a casa, affidate a sua madre, due figlie che avevano 2 e 4 anni (e ora 4 e 6), nella totale assenza del padre sparito con un’altra donna: «Come saranno diventate? Mi riconosceranno ancora come loro mamma?», si chiedeva.

Al ritorno dalle Filippine ho fatto scalo a Colombo, nello Sri Lanka. Nel volo da Colombo verso Beirut con scalo a Kuwait City, questa volta pieno di donne srilankesi che lavorano nei Paesi arabi, ero seduto accanto a una madre libano-francese, con un bimbo di sei mesi e una figlia di quattro anni. Il primo piangeva disperatamente, la seconda faceva i capricci, la madre era nel panico. Dopo il decollo la donna si è rifugiata nei servizi e ha lasciato i figli alle cure della 'tata' srilankese, una donna sui 25 anni che in un battibaleno è riuscita a far sorridere il bimbo e a interessare la piccola con un gioco inventato lì per lì. Una vera madre: quei due piccoli parevano suoi per l’attenzione con cui li trattava.

Esiste una gerarchia tra queste diverse collaboratrici familiari: le filippine sono molto più ricercate, seguite da etiopi e srilankesi. Gli stipendi hanno un loro tariffario ben preciso, che varia da Paese a Paese, ma che si può situare in una forbice dagli 800 ai 400 dollari per le prime, da 600 a 400 per le seconde, da 500 a 300 per le terze. Non si tratta di flussi di denaro di poco conto, sapendo che, ad esempio, le donne filippine presenti in Arabia Saudita superano il milione, che le etiopi in Libano sono 100mila e che le srilankesi in Kuwait sono altrettante. Le condizioni di lavoro non sono sempre ottimali. Se vitto e alloggio vengono garantiti, ovviamente, i giorni lavorativi (24 ore su 24) sono sei e il giorno di riposo viene spesso ridotto a poche ore. Soprusi e violenze non mancano, se è vero che recentemente il presidente filippino Duterte, ben noto per le sue muscolose iniziative, ha vietato alle donne filippine di lavorare in Kuwait, dopo il susseguirsi di episodi di violenze e di stupri subiti dalle sue connazionali. Ma anche in Paesi dove le condizioni sono migliori, lo status di queste donne è spesso di 'quasi-servitù'.

Anche in Europa aumentano le badanti, le bambinaie e le collaboratrici domestiche provenienti dal mondo meno sviluppato: in Italia, secondo l’Inps, i lavoratori domestici stranieri 'ufficiali' sono quasi un milione. Nel settore il 75% del lavoro è straniero, il 30% è originario dell’Est europeo, l’89% è femminile. Le filippine non sono poche (si stimano intorno a 200mila, tra 'ufficiali' e 'clandestine'), le srilankesi aumentano (sono almeno 150mila), un po’ meno le etiopi (circa 80mila). Ma c’è in compenso una maggiore presenza dagli altri Paesi del subcontinente indiano. Lentamente queste donne stanno prendendo il posto di ucraine, moldave e rumene, che per vent’anni hanno trovato impiego maggioritario presso le nostre famiglie. Ora la scelta cade su donne che 'costano meno', visto che quelle dell’Europa dell’Est non si accontentano più di compensi troppo bassi.

In questo contesto, spesso viene sottovalutata la responsabilità nella 'costruzione familiare' che riposa sulle spalle di queste giovani donne. Pur in contesti familiari assai diversi – la poligamia di certi Paesi arabi non ha nulla a che vedere con le famiglie a geometria variabile dell’Occidente – le donne filippine, etiopi o srilankesi, in maggioranza cristiane va detto, portano sentimenti di fedeltà e dedizione difficili da trovare in certi ambienti più benestanti: badanti, bambinaie e collaboratrici familiari portano, assieme alla loro semplice fede popolare, degli affetti familiari spesso ormai sconosciuti negli ambienti in cui lavorano, nella frammentazione spietata delle famiglie nei Paesi ricchi.

C'è stato un tempo in cui si è cominciato ad accusare le badanti – allora soprattutto dell’Est europeo – di 'distruggere' tante famiglie italiane: le giovani donne avrebbero sedotto i padri, le meno giovani avrebbero rubato l’affetto dei vecchi, inducendo un certo numero di loro a sposarle, spesso trasferendosi nei Paesi di origine delle donne. Ricordo nel 2009 l’ambasciatore italiano in Moldavia, Di Meo, che stimava a 3-400 all’anno tali casi. Mentre il cardinale Tettamanzi, seguito dal cardinale Scola, d’accordo con gli ortodossi ucraini, aveva istituito a Milano un centro di accoglienza e di orientamento familiare per le badanti ucraine in arrivo in Italia, per accompagnarle nel loro lavoro ed evitare se possibile 'incidenti di percorso'. Naturalmente questi casi non sono mai stati (e non sono) numerosi, ma come sempre si è gettata un’ombra su un enorme capitale di attenzione e generosità che le donne dell’Est, e ora quelle di Asia e Africa, avevano portato nelle case delle nostre famiglie, spesso accollandosi lavori al limite del sopportabile. Al di là di tali accuse, queste donne, che rinunciano per motivi economici alla vita familiare a casa loro, sanno trasferire anche i loro migliori sentimenti nei Paesi e nelle famiglie di adozione. La riconoscenza che dobbiamo loro è enorme. Spesso sono il solo collante che tiene assieme tanti nuclei altrimenti destinati ad esplodere. Meriterebbero il Premio Nobel per la pace.