Opinioni

Cannabis, oltre quel ribadito «no». Per un’etica della cura

Giuseppe Anzani giovedì 10 marzo 2016
Coltivare la cannabis è un reato punito con la reclusione e con la multa, e reato rimane giustamente anche di fronte alle norme della Costituzione, anche quando di tratta di una coltivazione domestica, a uso proprio, fatta per il consumo personale della droga che ne estrae. La Corte Costituzionale, provocata a un ennesimo vaglio della questione da una vicenda penale modesta (otto piantine di cannabis coltivate nel garage di casa, 25 grammi di marjuana nel comodino) ha ribadito il suo "no" all’ipotesi di trattare la coltivazione casalinga alla stessa stregua di chi compra la droga e la detiene per uso personale, con sanzioni solo amministrative. A oggi non altro conosciamo, circa le ragioni che hanno indotto la Corte a ritenere «non fondata» la questione di legittimità costituzionale, se non il breve comunicato che le mette «nel solco delle precedenti pronunce».Ma il solco, per chi rammenta le precedenti pronunce, è chiarissimo. Esso si incide, da decenni, dentro un campo di norme internazionali condivise, ratificate, citate nelle vecchie sentenze. E rimaste ferme, sullo sfondo della nostra variabile legislazione interna, a partire dalla Convenzione di New York del 30 marzo 1961, fino alla  Convenzione Onu adottata a Vienna il 20 dicembre 1988. Perché la droga è flagello mondiale. E in forza degli impegni che l’Italia ha firmato in faccia agli altri Paesi del mondo, la legislazione antidroga ha dei vincoli non superabili ad libitum. Fondamentale fu la sentenza n. 360 del 1995 della Consulta, dopo l’avvenuta depenalizzazione dell’acquisto e detenzione di droga per uso personale: essa affrontò l’identico odierno quesito, cioè se fosse ragionevole e giusto far differenza fra possesso di droga comprata e coltivazione fatta da sé, sempre per uso personale. E disse che, sì, le cose erano davvero diverse, e che la cintura di sanzioni disposte attorno al nucleo centrale della condotta da contrastare potevano differenziarsi, in ragione del diverso pericolo sociale; coltivare significa accrescere la massa, la fonte, la diffusione della droga.Il fatto che qualche giudice di merito sia tornato a investire la Consulta del medesimo quesito, ottenendo peraltro la medesima risposta, può farci riflettere sulle possibili disarmonie che si annidano nell’albero giuridico della legislazione singhiozzante sulla droga, sui suoi sussulti referendari, sulle impennate di lassità e rigidità, sui sistemi metrici effimeri (modica quantità, dose giornaliera, uso personale) che hanno vorticato; e persino su qualche sbadataggine di confezione pagata cara come accadde per il decreto legge 272 piombato a fine anno 2005 sulle Olimpiadi di Torino. E mentre centelliniamo le sfumature della dottrina giuridica, raffinata fino alla estenuazione, ci chiediamo che cosa ne è stato in tutti questi anni della nostra speranza di sconfiggere il flagello; dico la speranza di casa nostra, dei nostri figli, della mentalità che assimilano e dello stile di vita che adottano, se il problema della droga è rimasto per noi come decidere il catalogo e il dosaggio dei castighi col bilancino e non invece l’impegno corale a levare di mezzo risolutivamente questi veleni dalla civiltà umana.Sapere, dal responso della Consulta, che lo Stato può continuare a colpire con la legge penale i coltivatori domestici della cannabis fatta in casa ci pare ora un modesto guizzo di serietà. Ma è necessario qualcosa di più di questo colpo di tosse, se si vuol liberare il polmone, svuotarlo dai depositi collosi di una predicazione, non ancora stanca, di impunito consumo o di libera droga leggera. Prevenire è meglio che curare, mettere in salvo è più vantaggioso che dover ricostruire. Quanto il consumo di droga inneschi la commissione di svariati delitti, sono le cronache a mettercelo sotto gli occhi. In Svezia, messo al bando totale il consumo, la tolleranza zero per ogni droga è diventata una sorta di "etica della cura". E sta funzionando, con carceri meno affollate, con meno vite guastate.