Opinioni

Il caos nei servizi pubblici. Se uno sciopero «bianco» lede la dignità civile

Marco Olivetti venerdì 10 luglio 2015
Lo sciopero bianco dei macchinisti della metropolitana di Roma è soltanto il più recente di una lunga serie che ha segnato l’ultimo anno nel trasporto pubblico locale della capitale. Mentre gli scioperi precedenti – indetti con ritmo quasi settimanale – erano spesso il risultato di iniziative di micro-gruppi sindacali, con pochi aderenti e scarsa trasparenza organizzativa, quello attuale esprime la protesta di una categoria (i macchinisti) di fronte alle condizioni previste dal contratto di lavoro, fra cui l’uso del badge per controllare che il lavoro sia effettivamente svolto e un numero di ore lavorate annuali pari a quelle dei loro colleghi di Napoli e Milano. Ma soprattutto sono diversi gli effetti: poiché si tratta di uno sciopero bianco, e non di una interruzione dell’attività lavorativa, si verifica "semplicemente" una riduzione del numero dei convogli effettivamente operanti e non opera nessuna delle garanzie che la legge 146/1990 ha previsto a tutela degli utenti del servizio pubblico. Il risultato è stato ben descritto dai giornali e dai social media di questi giorni: centinaia di persone ammassate in spazi ristretti, oppresse da un caldo africano e con il rischio che un movimento inconsulto di qualcuno causi una tragedia per tutti.Una situazione che si sarebbe tentati di comparare con quella dei migranti sui barconi che partono dalla costa libica per tentare un approdo di speranza sulle coste europee, e che si potrebbe considerare una forma di trattamento inumano o degradante. Imposto, ovviamente, alle persone comuni: quelle che non possono far ricorso ai taxi o alle auto blu. L’ultimo sciopero e quelli che lo hanno preceduto si inseriscono in un assetto del trasporto pubblico locale (e più in generale dei servizi municipali, si pensi alla raccolta dei rifiuti) che a Roma è già fisiologicamente segnato dall’inadeguatezza rispetto agli standard delle metropoli del mondo civile, al punto che si è tentati di sostenere che nella Città Eterna è come se uno sciopero ci fosse sempre, per default, anche quando non ne viene indetto nessuno. Basta provare a salire su un convoglio metropolitano della linea A alla stazione Termini alle 9 di mattina per averne conferma, 365 giorni all’anno. Le cause di tutto ciò sono senza dubbio molteplici, e alcune vanno indietro nel tempo: esistono deficit di pianificazione che neanche un improvviso regno della virtù potrebbe sanare dall’oggi al domani. Ma esistono cause immediate, con responsabilità precise. Esse stanno nel comportamento delle organizzazioni sindacali del pubblico impiego, e in particolare di quelle del trasporto locale della capitale e nell’uso irresponsabile e barbaro (nel senso originario di contrapposto a "civile") che esse fanno del diritto di sciopero. Al riguardo, non vi è dubbio che la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero siano parte non secondaria del nostro compromesso costituzionale e dell’architettura pluralistica della società italiana. Tuttavia talora sembra che lo sciopero e l’organizzazione sindacale siano diventati un po’ quello che era la proprietà nel XIX secolo: un diritto "sacro", assoluto, non nel senso di valido erga omnes, ma di diritto privo di limiti. Tuttavia se vi è una acquisizione diffusa nel costituzionalismo contemporaneo, essa è quella che i diversi diritti fondamentali operano in un rapporto di integrazione reciproca e incontrano limiti: essi non sono cioè assoluti, idonei a operare a qualsiasi costo. Pertanto, neppure la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero possono diventare la tomba della convivenza civile. Ciò del resto non è affatto ignoto alla Costituzione vigente, che negli articoli 39 e 40 richiede una legge sulla registrazione dei sindacati e una sui limiti al diritto di sciopero. Ma la prima non è mai stata approvata per la fiera opposizione dei sindacati stessi, mentre la seconda ha ricevuto un’attuazione debole, affidata alla Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, che ha poteri limitati (soprattutto sul piano delle sanzioni verso i sindacati e i lavoratori che scioperino fuori dai limiti di legge), che diventano nulli a fronte di uno sciopero bianco.L’intollerabile lesione della dignità dei cittadini utenti dei servizi pubblici in casi come quello romano richiede ormai interventi normativi. Interventi che riprendano lo spirito profondo degli articoli 39 e 40, inserendoli saldamente nell’impalcatura dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione (vita, integrità fisica, salute, mobilità individuale, libertà di lavoro, ecc.). Da un lato, appare necessaria una legge sui requisiti minimi e sulle regole di funzionamento (ad esempio, di democrazia interna e di trasparenza) delle organizzazioni sindacali: non ogni minigruppo di lavoratori può autodefinirsi sindacato e organizzare uno sciopero, specie in sistemi in cui bastano pochi scioperanti a paralizzare un servizio pubblico. In secondo luogo, una legge sulle modalità di esercizio di tale diritto: si dovrebbe, almeno, stabilire che per poter proclamare uno sciopero occorre una soglia minima di consenso all’interno della categoria e si dovrebbero prevedere procedure formali e pubbliche per giungere a tale decisione. Una legge simile è in vigore da anni in Gran Bretagna e consente di norma di evitare scioperi selvaggi e continui. Infine, occorre un adeguato apparato sanzionatorio, capace di colpire duramente – sul piano delle sanzioni finanziarie, senza escludere il licenziamento – i sindacati e i lavoratori che scioperino (anche nella forma dello sciopero bianco)  in deroga alle regole. I sindacati e lo sciopero – soprattutto nei servizi pubblici essenziali – devono uscire dal far west e collocarsi in un contesto di civile convivenza. Ciò, fra l’altro, è interesse dei sindacati stessi, che devono essere un soggetto di alta reputazione sociale per svolgere il proprio ruolo in una democrazia pluralista.