Opinioni

Il libro. Quegli Slalom di Salvatore Mazza. Un viaggio di vita nella malattia

Federico Lombardi mercoledì 27 dicembre 2023

Salvatore Mazza, in primo piano, intervista papa Francesco durante un viaggio internazionale, che ha seguito nella prima parte del pontificato

«Tre lettere possono cambiare la vita». Fu questo l’esordio di “Slalom”, la rubrica quindicinale di Salvatore Mazza pubblicata su “è vita” di “Avvenire” dal 20 settembre 2018 all’8 dicembre 2022, per un totale di 83 puntate. Ora le straordinarie pagine del suo viaggio nella Sla, escono in un libro edito da Vita & Pensiero nella collana “Pagine prime” curata con “Avvenire”: «Slalom. Diario dalla Sla» (208 pagine, 16 euro) sarà nelle librerie dal 19 gennaio ma è già ordinabile sul sito dell’editore (tinyurl.com/3matcsk8). Arricchiscono il volume un pensiero della presidente AiSla Fulvia Massimelli, la postfazione di Mario Sabatelli, direttore del Centro Nemo presso il quale Salvatore era in cura, e la prefazione di padre Federico Lombardi, già direttore della Sala stampa vaticana (che ieri, nell’anniversario della morte, ha celebrato la Messa nella chiesa del Sacro Cuore del Suffragio di Roma) di cui anticipiamo ampi stralci.


Questo è un libro da leggere con prudenza. Ogni volta che si leggeva uno dei pezzi di Salvatore Mazza nella rubrica quindicinale “Slalom” su “Avvenire” era un’emozione forte. Ma ora leggerli tutti e 83, uno di seguito all’altro, può lasciare senza fiato. Per questo dico che bisogna fare attenzione, perché è facile restare in certo senso sconvolti. Poi è bene lasciare che la prima emozione si calmi e riprendere la lettura a distanza di qualche tempo, per scoprire nuove prospettive, raccogliere altri messaggi, passare dal turbamento alla gratitudine per chi ha avuto la costanza e il coraggio di scrivere per noi queste parole.

L’impatto di una diagnosi che cambia la vita, il progredire inesorabile della malattia e della perdita graduale di ogni capacità di movimento, la ricerca e le speranze illusorie di nuovi farmaci, gli interventi per conservare le possibilità di alimentazione e di respirazione (peg e tracheostomia), le battaglie con la burocrazia per ottenere l’assistenza necessaria, ma soprattutto il peso di vivere per anni in piena lucidità mentale nell’immobilità progressiva (e poi completa), l’attesa dell’esito fatale... Davvero non ci stupiamo quando Salvatore si trova «a pensare che forse, senza questa lucidità, senza questa consapevolezza, vivrei meglio; non starei continuamente a farmi le mille domande che mi affollano il cervello, domande che non hanno risposta, o a preoccuparmi per la fatica che causo – involontariamente ma inevitabilmente – alle persone che mi sono care» (59).
Ci sono anche moltissimi altri aspetti e particolari che chi è “dall’altra parte” non potrebbe neppure immaginare. Tutto è raccontato con una sincerità e una qualità espressiva che coinvolge profondamente e attanaglia; ma ancor più ci lascia esterrefatti il modo in cui Salvatore riesce a parlarci dello svolgersi di questo dramma che ci sembra francamente inenarrabile. (...)

Salvatore ha una memoria formidabile, di cui va fiero, che si manifesta miniera preziosa di ricordi uno più bello dell’altro. Anche quando sei inchiodato su un letto, «quel che puoi portarti appresso sono i sogni in cui hai creduto e le passioni che hai inseguito, i ricordi belli, l’amore che hai ricevuto e dato. È tutto quello che ti riempie il cuore e, anche se non te ne rendi conto, ti fa svegliare ogni mattina e incominciare il giorno nuovo che ti aspetta» (74). «Faccio spesso questo esercizio di bilancio della mia vita, soprattutto di notte, quando non riesco a dormire. E devo dire che nel complesso è piuttosto positivo» (75). «Ci sono i giorni “sì” e i giorni “no”. Ma per fortuna i giorni “sì” sono molti più degli altri. Una cosa, credo positiva, che ho realizzato in questi quasi 5 anni di malattia è che non ho mai avuto invidia per nessuno. Mai davvero. Anche oggi, che sto come sto (e qualche giustificazione ce l’avrei), non mi sono mai ritrovato a pensare “beato te che puoi camminare, muoverti, parlare, respirare, mangiare”. Non so se questa sia una virtù: forse si tratta solo di una questione di carattere. Ma non mi cambierei con nessun altro, mi sto bene così» (63). E un mese prima di morire ci dice ancora: «La sera, prima che il sonnifero faccia effetto e mi regali un po’ di sollievo dopo le mie giornate sempre più faticose, con gli occhi chiusi apro a caso uno degli infiniti cassetti dell’immenso schedario che è il cervello, e ricordo. Ma, lo confesso, un po’ baro. Apro solo i cassetti dei ricordi belli. Per mia fortuna sono tantissimi» (82). «Forse a salvarmi da depressione e pazzia è alla fine la perdurante consapevolezza che, in fondo, nella mia vita “passata” ho fatto un sacco di cose. Ho letteralmente girato più di mezzo mondo, ho fatto il lavoro che sognavo da bambino, e ho una meravigliosa famiglia che mi è stata sempre vicino quando non c’ero e anche adesso, che ci sono anche troppo. E alla fin fine, che cosa puoi volere di più dalla vita?» (66). Già, che cosa conta davvero nella vita?

Da quando sa di avere la Sla, Salvatore convive con il pensiero della morte. Dopo qualche settimana questo ha smesso di essere un pensiero angosciante e, per quanto ci possa sembrare assurdo, è diventato «una presenza amica e potrei dire perfino rassicurante». Salvatore osserva che nel nostro tempo «abbiamo respinto la morte e tutto ciò che ce la ricorda ai margini della coscienza personale e collettiva... in una rincorsa all’immortalità... Poi succede che la vita ti catapulti da un giorno all’altro dal lato opposto della barricata, e vedi tutto con occhi diversi, E comprendi tante cose, persino perché san Francesco chiamava “sorella” la morte. Da cui per quanto ci illudiamo nullu homo vivente po' scappare. Quando capisci questo, allora, non ti fa più paura, e diventa una compagna di viaggio» (24).

Ma la vera chiave preziosa del racconto di Salvatore, su cui torna continuamente e appassionatamente, è quella della solidarietà e dell’amore. Ci sono Cri, Giulia e Camilla, cioè la moglie e le figlie, anzitutto e più di ogni altro, ma non solo. Ci sono anche le sorelle e i cognati, gli amici e le amiche fedeli, i vecchi compagni di scuola, le persone che gli prestano assistenza, i medici capaci di spiegare con chiarezza e dialogare sulla via da percorrere, c’è perfino l’affezionatissimo cane bassotto Ettore, che «ha capito per primo» che qualcosa non andava... «Cerchi magici», collegati fra loro «così da non mollarmi mai. E io, che mi sento come un sasso che la Sla ha tirato in mezzo al mare, so molto bene che affonderò, ma questi cerchi mi tengono stretto, sono le mie ciambelle di salvataggio. E non è solo galleggiare, è vivere» (19).

Fra le persone a cui Salvatore è grato ci sono il prof. Mario Sabatelli e la dott.sa Amelia Conte, del Centro Nemo del Policlinico Gemelli, che lo seguono dal punto di vista medico, ma che sanno svolgere il loro servizio con grande saggezza e umanità. Sono stati capaci di parlare con lui a lungo e con chiarezza del suo futuro e fare la “pianificazione condivisa delle cure” fra medico e paziente. Salvatore ci dice: «Mi è capitato spesso di pensare a tanti dei bioeticisti che ho conosciuto nel corso della mia lunga vita professionale. Moralisti da scrivania, slegati dalla realtà della malattia, della sofferenza vera, che non hanno mai guardato negli occhi una persona nelle mie condizioni; sempre pronti a spaccare il capello in quattro, capaci solo di ridurre la bioetica a un’astratta serie di norme. E purtroppo parlo anche di ecclesiastici, vescovi e cardinali inclusi. E li ho messi a confronto, inevitabilmente, con la delicatezza, attenzione, umanità con cui Mario e Amelia – loro che sono in prima linea – mi hanno accompagnato in questo delicato percorso di consapevolezza. Un percorso che non potrà mai essere ricondotto a un freddo formulario, questo sì e questo no. La vera vita delle persone è una cosa affatto diversa» (48). (...)

Non credo che abbia senso riportare qui, in una breve prefazione, ciò che Salvatore dice o lascia capire del suo rapporto con Cri e con le sue figlie. Bisogna coglierlo dalle sue stesse parole. È un tesoro, è il nocciolo del segreto del perché e del come è riuscito a vivere fino alla fine una vita intensa, a cui anche noi possiamo tuttora attingere. Poco più di un mese prima di morire, quando si interroga se con la sua malattia non stia rubando alle sue figlie troppo tempo della loro giovinezza, scrive: «Ma poi le vedo chine sul mio letto che mi accarezzano, mi sorridono, mi baciano la fronte come facevo io con loro quando erano piccole, che avvicinano la loro guancia alle mie labbra che quasi non si muovono più, in una simulazione di bacio. E mi viene voglia di avere un giorno di più da vivere per poter guardare un’altra volta i loro occhi» (81).

Salvatore è un credente. Ha vissuto una lunga e impegnata esperienza cristiana ed ecclesiale, ma nel suo Diario non troviamo molti ragionamenti sulla spiritualità e la preghiera. Nell’intensità della sofferenza prolungata la moltiplicazione delle parole su ciò che è più intimo perderebbe significato e il silenzio quasi naturalmente prevale. I cenni espliciti alla fede sono pochissimi, discretissimi, ma eloquenti. La serenità nel sapere che nel cassetto del comodino c’è il fazzoletto donatogli da Madre Teresa (3), lo spirito di san Francesco nel parlare della «sorella morte» (24), il «Ciao Zambo, e grazie. Ci vediamo», detto ricordando l’assistente scout della sua giovinezza, che aveva saputo invitare i ragazzi ad accogliere la morte improvvisa di un amico «ringraziando il Signore di averci dato la gioia di condividere con lui un tratto della vita», e di cui aveva poi ammirato la pazienza nella malattia, quando non si lamentava e si rivolgeva a lui sempre sorridendo... (26). Sommessamente direi che la fede, la religiosità radicale che permea la vita di Salvatore nella malattia traspare soprattutto dalla gratitudine con cui continua a vedere tutta la sua esistenza e dall’amore che ne costituisce il sostegno, il nutrimento e il senso.

E così, dopo aver letto e riletto l’impressionante narrazione di cinque anni di vita con la Sla non ci rimane che affidare al lettore questo documento straordinario che Salvatore ci dona, certamente il più grande della sua bella e feconda vita di scrittore. A ognuno il compito di affrontare nella sua mente e nel suo cuore, con umiltà e verità, le emozioni e i moltissimi interrogativi che ci pone.

Credo che rimarremo molto grati a lui – e a chi lo ha accompagnato – per averci dato un messaggio di coraggio nel dolore, di amore capace di salvare da ogni tentazione di sconforto e disperazione. Insomma, un messaggio di speranza di cui abbiamo immenso bisogno.

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