Opinioni

Il direttore risponde. «A Oriente l’orrore si fa avanti. E noi?» Non ci deve intossicare. Vinciamolo

Marco Tarquinio giovedì 4 settembre 2014
Caro direttore,
notizie dall’Iraq... Nel Vicino Oriente l’orrore si fa avanti, senza nemmeno un briciolo di pudore, senza la preoccupazione di starsene nascosto, ma anzi ostenta il massacro e le altre brutture di cui si pasce per incutere terrore. È quello che loro, i jihadisti, chiamano rispetto. La biblica bestia dell’Apocalisse, tutto ciò che nella memoria ancestrale dell’uomo può venire fuori, è giunto… Me ne duole anche perché non vedo nella nostra gente alcuna vera reazione. C’è assuefazione? Si pensa ai guai del nostro Paese? Può darsi ma è bene che anche noi si cominci a pensare agli altri, a quelli che vengono sacrificati e a quelli che fuggono camminando scalzi sulle pietraie del deserto, senz’acqua, senza pane e senza un rifugio.
Franco Masini, Lucca
Non dobbiamo farci intossicare dal contagocce dell’orrore, caro signor Masini. La diffusione del nuovo video dei terroristi jihadisti che testimonia la decapitazione del giornalista americano Steven Sotloff, rafforza questa consapevolezza resa acuta in tanti di noi – molti più di quanti lei creda – dalla sofferenza dei cristiani e degli appartenenti a ogni altra minoranza perseguitata. Siamo con ogni vittima, gli assassinati senza pietà e i cacciati dalle proprie case e sradicati dalla propria terra. Ma – ripeto – non possiamo e non dobbiamo farci intossicare di odio e di spavento da quell’orribile contagocce che abbiamo già visto usare più volte nelle vicende delle nostre società. Di come possa essere utilizzato con cinica ferocia ne sappiamo qualcosa anche noi italiani, ma non c’è dubbio che il modo scelto dai fondamentalisti islamici è particolarmente duro perché ha un’efferatezza antica e nuova rispetto ad altre intimidazioni terroristiche accompagnate da deliberati “sacrifici umani”. Il compito dei giornalisti è però sempre lo stesso, oggi come ai tempi della minaccia dei brigatisti rossi e neri in Italia: riuscire a far capire a chi ci legge, ci ascolta e guarda ciò che sta accadendo nelle sue esatte proporzioni, senza cadere nel tranello dei terroristi e senza dar loro ragione, in nessun modo, soprattutto non veicolando supinamente le immagini che vanno spacciando, resistendo alla tentazione di allinearsi alla forza brutale e terrorizzante di quello che essi compiono, ma trasmettendone il senso e distruggendo il consenso attorno alle violenze oppressive e omicide. In questa maniera, in un passato non troppo lontano, il sistema mediatico ha contribuito alla sconfitta del terrorismo ideologico. Oggi la stessa misura può essere utilissima nella battaglia ingaggiata per sconfiggere il terrorismo fondamentalista islamico, per resistere all’intimidazione brutale – insita nell’orrore che viene rilasciato a dosi cadenzate nel corpo dell’opinione pubblica mondiale – realizzata in Siria e in Iraq e che si vorrebbe portare sin nelle nostre case. Per questo dico, e ripeto, che i video dei terroristi islamici non vanno mostrati, bisogna piuttosto e sempre dare alle persone le ragioni per capire quanto vale questa sfida che non possiamo non vincere. C’è in gioco la civiltà comune, la convivenza tra diversi, la fatica millenaria dello “stare insieme” che oggi possiamo affrontare in modo nuovo, più consapevole, più umano e – noi che ci sforziamo di vivere il Vangelo non possiamo dimenticarlo – più vicino al progetto di Dio Padre per tutti gli uomini e tutte le donne suoi figli. La vita dei cristiani e degli altri appartenenti alle minoranze religiose del Vicino Oriente non è mai stata facile, però certamente quello che sta accadendo adesso ha aspetti inediti. In più rispetto a orrori sperimentati a tratti anche nel passato c’è la proiezione mediatica enormemente superiore di ogni azione del boia del califfo di turno. È enormemente superiore l’intimidazione che viene realizzata da un’impiccagione o una decapitazione in una piazza mediatica rispetto a quella che si consuma in una pur grande piazza di città, perché ciascuna “esecuzione 2.0” galvanizza in ogni angolo del “villaggio globale” i vicini alla visione e alla pratica jihadista e tende a deprimere, a mettere in condizione di inferiorità difensiva, quelli che sono e si sentono simili alla vittima prescelta come agnello sacrificale. Su questo piano e a questa sfida bisogna saper rispondere: non contribuendo alla strategia propagandistica dei tagliagole del cosiddetto “Stato Islamico” attraverso la diffusione delle immagini dell’orrore, ma dando ugualmente, lucidamente puntualmente conto di tutto ciò che accade. Perché la gente sappia, senza esser consegnata alla grammatica del terrore. Perché non dilaghi la paura che paralizza o rende ciechi e folli come gli assassini del “califfo”. Perché cresca, invece, sempre più la solidarietà che soccorre, resiste e umanamente vince.