Opinioni

Fra urgenza profetica e realismo politico. Così un'«Orchidea d'acciaio» può cambiare Myanmar

Gerolamo Fazzini sabato 31 marzo 2012
​Il primo aprile 2012 – giorno in cui in Myanmar si tengono le elezioni parlamentari suppletive – rimarrà nei libri di storia come uno spartiacque nella vita di Aung San Suu Kyi. Da domani infatti colei che, fino a oggi, è stata ed è l’anima, l’icona della dissidenza birmana, potrebbe diventare un esponente politico di primo piano e giocare un ruolo ancor più decisivo per il futuro del suo Paese. Nemmeno il più ottimista degli osservatori avrebbe potuto prevederlo solo qualche mese fa: da donna anti-sistema a donna delle istituzioni. Come ha spiegato lei stessa in una recente intervista, «per circa 23 anni abbiamo lavorato al cambiamento stando fuori dal sistema e siamo stati abbastanza efficaci. Ora è venuto il momento di lavorare da dentro». In queste semplici parole è concentrato il senso della lotta di Aung San Suu Kyi: «Lavorare al cambiamento» con tenacia, ostinazione e, al tempo stesso, lungimiranza. Perseguendo con forza un ideale – la libertà e la democrazia – anche a costo di sopportare pesantissime ripercussioni e pagare un prezzo altissimo: pesanti limitazioni alla libertà personale, distacco forzato dalla famiglia, imprigionamento di centinaia, migliaia di sostenitori e amici, e via questo passo. Uno dei soprannomi più celebri tra i tanti affibbiati a colei che meritatamente vinse il Nobel per la pace nel 1991 è "orchidea d’acciaio". L’immagine senz’altro restituisce la forza del personaggio; ma – pare – è più efficace associare il volto levigato di Aung San Suu Kyi al bambù, così familiare nei paesaggi asiatici: il bambù, infatti, si piega, sotto l’urto del vento, resiste, ma non si spezza. Pronto a rialzarsi – indomito – appena la situazione lo permetta. Così è stato per Aung San Suu Kyi: per lunghi anni ha lottato "contro", ha alzato la voce, ha tenuto desta la speranza, stando però "fuori". Ora la scommessa è – se possibile – ancor più ardua e coraggiosa: cambiare il Paese da "dentro", ben sapendo che coloro che stanno al potere in abito civile sono, in molti casi, i militari di ieri, che l’esercito è un convitato di pietra e che alla Cina non piace affatto la piega che hanno preso gli ultimi avvenimenti in Myanmar... L’idealista dissidente di ieri è la stessa donna che si accinge a entrare nei meccanismi del potere. Una grande lezione per tutti coloro che, a qualsiasi latitudine, sognano e si battono per cambiare le cose. Non è abbattendo il potere che, sic et simpliciter, si costruisce il nuovo. «It is not power that corrupts but fear», recita una famosa frase del suo storico discorso del 1990: a corrompere non è il potere, ma la paura. E, aggiungiamo noi, la rassegnazione, la voglia di abdicare quando le cose vanno male, quando i risultati tardano ad arrivare, quando coloro che pensavi vicini tardano ad aiutarti (chissà quante volte, in questi anni, lei l’avrà pensato di noi occidentali). Aung San Suu Kyi è uno splendido esempio di sintesi fra urgenza profetica e realismo politico. Alla vigilia delle elezioni, sull’onda anche dell’intenso film che le ha dedicato Luc Besson, per Aung San Suu Kyi i paragoni si sono sprecati. Ieri Timothy Garton Ash ha accostato "The Lady" al dissidente cecoslovacco Vaclav Havel e a Nelson Mandela, al pari del quale la leader birmana ha patito una lunga prigionia senza accumulare desiderio di vendetta. A chi scrive, tuttavia, piace scomodare il paragone con Gandhi. Come il grande guru pacifista, Aung San Suu Kyi è uno straordinario modello di non violenza, di coraggio politico sorretto da un’immensa energia interiore. Ma non va dimenticato un elemento importantissimo: quel misto di dolcezza, fermezza e mitezza che fa tutt’uno con la femminilità del personaggio e rende Aung San Suu Kyi speciale e, a suo modo, unica.