Opinioni

Benedetto e gli uomini reclusi. Oltre i ferri, tra i «lupi»

Marco Pozza domenica 18 dicembre 2011
Dietro le sbarre abitano uomini con un passaporto di ferro e cemento; e tan­ti anni da scontare nel ventre di una patria galera. Il carcere è sempre alla periferia della città perché i lupi devono vivere nel­la foresta. Eppure, se scrutati nel volto, lu­pi non lo sono proprio. O, perlomeno, non lo sono sempre stati. Magari non lo sa­ranno più. Sono «avanzi di galera» dentro i quali batte ancora un fremito di vita. Uo­mini dietro il cui volto è nascosta una sto­ria: spenta, appassita, frastagliata e fra­stornata, ferita e minacciosa ma pur sem­pre una storia di uomini. Per questi bran­delli di umanità oggi è festa grande, un re­galo anticipato di un Natale difficile da vi­vere qui dentro. I passi decisi e il sorriso a­mabile di un vecchio Papa recheranno lo­ro l’annuncio più bello: nemmeno que­st’anno Dio si scorderà di nascere dietro le sbarre di una patria galera. Benedetto XVI varca la soglia del carcere romano di Rebibbia: eppure – per la forza simbolica dei gesti – è come se in con­temporanea varcasse i cancelli di tutte le carceri d’Italia. Un gesto nobile e sublime fatto da un condottiero di Cristo che è al­la costante ricerca di quelle pecore che del­l’ovile hanno smarrito il sentiero. Perché l’eterna sfida del cristiano non muta d’a­spetto: «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». E chi meglio di Benedetto XVI sa cosa significa oggi per il cristianesimo dia­logare con la cultura moderna e le sfide che essa rilancia: la sfida dell’evangelizza­zione passa anche attraverso la rielabora­zione di una ferita della quale si è carnefi­ci perché forse prima si è stati vittime. Quello del Papa è un gesto profetico e un monito al tempo stesso perché dietro le sbarre il cuore dell’uomo batte con gli stes­si battiti di tutti gli uomini del mondo. Cer­care l’uomo laddove la storia lo ha con­dotto è la sfida che non muterà mai d’a­spetto perché dietro il volto di ognuno di loro, prima che il delitto parla una storia ferita. E tante paure meditate nelle lunghe notti di veglia: paura d’essere soli e ab­bandonati; del passato, del presente e del futuro; dell’amico, del nemico, di loro stes­si. Del silenzio e forse anche di Dio. La pre­senza del Papa – reale per i detenuti di Re­bibbia, simbolica per tutti gli altri – servirà loro per continuare a tenere accesa la spe­ranza e l’emozione di sapersi ancora figli amati da Lui. Quella cristiana è stata tacciata d’essere la storia più ambiziosa del mondo. Così am­biziosa che un gigante come Agostino d’Ip­pona definì «felice colpa» il percorso della sua avventura esistenziale. In carcere c’è chi lavora per recuperare l’uomo nel frat­tempo della reclusione: è condividere il so­gno di Dio, che il peccatore non muoia ma si converta e viva. Forse anche per questo i panettoni che Benedetto XVI userà per i suoi regali personali arrivano dal carcere Due Palazzi di Padova, dove mani che han­no ferito diventano mani capaci di impa­stare la dolcezza, e dove ogni giorno si di­pana la mia esperienza di cappellano. Qui siamo sicuri che il segreto di quella ricetta non sta nelle mani dei maestri pasticcieri (della splendida Cooperativa Giotto) ma in un incontro vero con un Dio che dentro il ventre di una galera ha ridato un senso splendido alla loro vita. Questa è l’altra faccia del carcere, quella che oggi accoglie a braccia aperte la dol­cezza di un Papa che non smette mai di stupire l’uomo. Quell’uomo che, nono­stante tutto, rimarrà in eterno il miglior in­vestimento del Creatore.