Opinioni

Il carcere, le «ombre», l'(im)possibile. Oltre le sbarre

Danilo Paolini sabato 5 novembre 2016

L’affermazione può sembrare stramba parlando di carceri, eppure il Giubileo dei detenuti che si celebra oggi (ma fin qui tutto il pontificato di Francesco) rappresenta una spinta in uscita. L’invito è a ricongiungere ciò che il male compiuto dagli uomini ha separato, a comprendere che la prigione è parte integrante della società e non un inferno terrestre da chiudere il più ermeticamente possibile per poi gettare la chiave. «Visitare i carcerati» è una delle opere di misericordia corporale. Ma nell’Anno Santo che ha voluto dedicare alla misericordia, papa Bergoglio ha chiamato le donne e gli uomini "liberi" (e quindi anche i governi di tutto il mondo) a fare qualcosa di più arduo: lasciarsi visitare dai carcerati, dalle loro pene, dalle loro colpe, dalle loro paure, dai loro rimorsi e rimpianti, dai loro diritti di essere umani troppo spesso calpestati.


«A volte potrebbe sembrare che le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che promuovere processi di riabilitazione», ha sottolineato nel febbraio scorso visitando il penitenziario messicano di Cereso. Un messaggio universale, di enorme valenza spirituale, civile e sociale. In Italia, è lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando, in un’intervista che pubblichiamo oggi, a riconoscere che «alcuni passi compiuti finora» in materia carceraria «sarebbero stati impensabili senza il contributo e la spinta delle parole di papa Francesco». Delle parole e degli atti, ci permettiamo di aggiungere, avendo ancora negli occhi l’immagine del Pontefice chino a lavare i piedi ai ragazzi reclusi a Casal del Marmo e ai detenuti di Rebibbia durante le messe In Coena Domini del 2013 e del 2015.


Giorni fa anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, accompagnato da Orlando, ha visitato un carcere, il Due Palazzi di Padova. Un significativo segnale di attenzione da parte di un governo che appena due anni fa è riuscito a "sminare" una condanna per l’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, a risarcire circa 7mila detenuti per il «trattamento inumano e degradante» dovuto al sovraffollamento carcerario. L’operazione è riuscita facendo leva sulla depenalizzazione di alcuni reati, sull’introduzione anche per i maggiorenni della sospensione del processo con "messa alla prova", su un aumentato ricorso alle misure alternative alla detenzione in cella.


Dal 2014, secondo l’esecutivo, il tasso di sovraffollamento è sceso dal 146% al 109%. Il dato è contestato dai radicali e da altre realtà impegnate sul fronte penitenziario, perché non terrebbe conto dell’inagibilità di circa 5mila posti. Ma forse sono anche altri i numeri da cui partire per comprendere quanto lavoro c’è ancora da fare per rendere i luoghi di detenzione italiani degni di uno Stato di diritto. Due in particolare: 47 e 652. Il primo riguarda i bambini che vivono in carcere, reclusi da innocenti in quanto sono recluse le loro mamme, e sono 47 di troppo.

Il secondo è il totale dei detenuti semi-liberi che lavorano all’esterno, come autonomi o alle dipendenze di datori diversi dall’amministrazione penitenziaria. E sono davvero pochi. Poi ci sono gli "uomini ombra", come si autodefiniscono gli ergastolani "ostativi", coloro cioè che non hanno accesso ai benefici di legge (alcuni tipi di permesso, semi-libertà, libertà condizionale) neanche dopo 26 anni consecutivi di carcerazione. Non si sa quanti siano, perché sul loro conto non esistono statistiche ufficiali, di certo c’è soltanto che scontano una «pena di morte nascosta», come ebbe a dire nel 2014 ancora papa Francesco all’Associazione internazionale di Diritto penale.
Sono appena tre zone d’ombra che abbiamo voluto illuminare in un quadro che presenta ancora tante criticità, come gli edifici fatiscenti o vetusti, la carenza negli organici della Polizia penitenziaria e dei mediatori culturali, le condizioni igienico-sanitarie... C’è chi pensa che servirebbe un’amnistia per cercare di ricominciare (quasi) da zero, ma un provvedimento del genere richiede una maggioranza qualificata in Parlamento. Sarebbe un gran gesto, sempre possibile, ma in tutta franchezza improbabile in questo momento politico e data l’attuale composizione delle Camere.
Però un’occasione per battere un nuovo colpo la politica ce l’ha ed è contenuta nella riforma del processo penale che stenta a farsi largo tra i lavori del Senato per i veti incrociati all’interno della maggioranza: l’articolo 31 enuncia i princìpi e i criteri per riformare l’ordinamento penitenziario. Ci sono, almeno in potenza, tutte le risposte che il mondo carcerario aspetta da anni. Poi, ovviamente, i decreti delegati andranno riempiti di contenuti, altrimenti sarà stato scritto soltanto l’ennesimo libro dei sogni. Ma intanto è uno sforzo che va fatto perché in carcere, e dopo il carcere, ci siano solo persone e non più ombre.
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