Opinioni

Bankitalia e lo «sblocco» di sistema. Oltre le due velocità

Leonardo Becchetti mercoledì 1 giugno 2016
Banche, Europa, ripresa economica italiana. Non potevano essere che questi i tre temi della relazione annuale del governatore Ignazio Visco presentata ieri in Banca d’Italia. Affrontati però con sfumature e registri differenti. Sul tema delle crisi bancarie il tono è apparso prevalentemente difensivo. È come se nel capitolo della relazione dedicato a questo si fosse risposto alla domanda implicita "perché non siete intervenuti prima ?" Il governatore ha spiegato le differenze di poteri e informazioni tra autorità di vigilanza e potere giudiziario e ha sottolineato come molto spesso in fasi intermedie delle crisi bancarie la riservatezza prevalga per evitare reazioni capaci di aggravare ancor più i problemi. Sottolineando la mole di lavoro ispettivo e di interventi di commissariamento che intervengono come ultima ratio per raddrizzare la situazione quando essa appare critica. Resta però l’evidenza di come il commissariamento sia più facile e desti meno clamori quando si tratta di piccole e piccolissime banche e il fatto che le crisi della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca siano arrivate a piena maturazione con perdite quasi totali della ricchezza degli azionisti, senza la presa di controllo della vigilanza nel tentativo di raddrizzare la rotta. Sull’Europa l’intervento del governatore è apparso convincente e pienamente condivisibile. La Ue con una mano ha preso (i tentennamenti sul processo di integrazione e le risposte macroeconomiche sbagliate alla crisi del 2007) e con l’altra ha dato. Non va mai dimenticato infatti l’effetto del quantitative easing(il riacquisto di titoli di Stato) di Mario Draghi sul nostro debito pubblico che ha un costo medio del 3,7% ma è in continua diminuzione, man mano che lo stock con vita media di 6 anni e mezzo viene rinnovato al costo di mercato, ben sotto l’1,5%. Allo stesso modo, ricorda Visco, se la crisi fosse stata gestita meglio con inflazione e crescita vicine al decennio pre-crisi, il nostro debito pubblico invece di salire dal 100 al 133% sarebbe salito di soli 4 punti. Pienamente condivisibile e comprensibile, dunque, da parte di un convinto europeista, l’invito alla Ue ad andare avanti nel processo d’integrazione. Cambiando registro e passando dal "ognun per sé e vediamo se siete in grado di cavarvela" a una più convinta condivisione di risorse (sul debito e sugli investimenti) che può nascere solo da una maggiore fiducia reciproca. Molto duro ed efficace l’intervento sui limiti del bail-in (il salvataggio di una banca ad opera anzitutto di azionisti e obbligazionisti) anche se purtroppo a posteriori.Visco ha opportunamente sottolineato la brevità del periodo di transizione, l’applicazione retroattiva anche ad attività finanziarie nate sotto un regime diverso e ha criticato il veto europeo sul ricorso al fondo interbancario dei depositi e al concorso di risorse pubbliche nelle crisi bancarie. Sottolineando come in passato (il riferimento sottinteso a crisi come quella svedese del 1992 e anche alla via d’uscita americana della crisi del 2007) l’uso sapiente di risorse pubbliche nel riacquisto di asset svalutati abbia portato guadagni e non perdite ai conti pubblici. È comunque un dato di fatto che l’era del bail-in segna per il nostro Paese l’inizio di un periodo in cui gli choc economici si ripercuotono direttamente sulla ricchezza privata senza il cuscinetto del debito pubblico. Sul tema della ripresa le considerazioni ormai ben note sui punti deboli del Sistema Paese (inefficienze burocratiche, tempi e costi della giustizia civile) si intrecciano con aperture nuove e importanti sul tema dell’efficientamento energetico degli edifici come strategia capace di ridare slancio al settore delle costruzioni. Avremmo però auspicato proprio su questo punto maggiore sottolineatura e consapevolezza del problema strutturale che l’Italia sta vivendo nel rapporto bancaimpresa. Un Paese bancocentrico, con una quota dominante di piccole e medie imprese e di imprese artigiane di cui si auspica una crescita dimensionale, ma che punta poi ad un modello di big bank che ha come obiettivo prioritario la creazione di valore per gli azionisti e dunque vede il credito alle piccole realtà come l’attività strategicamente meno conveniente. Gli ultimi dati disponibili non fanno che confermare questa preoccupazione con la divaricazione delle dinamiche dei prestiti alle grandi imprese (che tornano di segno positivo) e quelle alle piccole, medie e alle artigiane che restano con segno negativo anche se in lieve miglioramento. Sono perciò molto importanti le parole dedicate in conclusione alla riforma del credito cooperativo. Tutti auspichiamo che le Bcc aumentino il loro grado di efficienza interna, in particolare per gli anelli meno forti del gruppo. Ma la riforma sarebbe una clamorosa occasione mancata, un indebolimento e ulteriore aggravamento del problema strutturale, se si volesse omologare il neonato gruppo (che ha coefficienti medi di patrimonializzazione superiori alla media) al modello di quelle banche che, come si è appena spiegato, non hanno come obiettivo strategico principale alcun particolare interesse al finanziamento dei 'piccoli'. Sullo sfondo della relazione c’è il problema di un Paese eterogeneo e duale. A fronte dell’Italia che ce la fa, tra le prime potenze manifatturiere esportatrici con un portafoglio di imprese eccellenti, c’è l’Italia che non ce la fa e si arrangia in mille modi (non sempre socialmente responsabili) per restare a galla. E i dati medi del Paese, non certo brillanti, soffrono proprio queste 'due velocità'. Un sistema bancario biodiverso, più ricco e inclusivo (con un ruolo importante delle banche etiche e cooperative come in molte altre nazioni) può giocare un ruolo fondamentale per ridurre il divario.