Opinioni

La regola aurea della «reciprocità». Gli occhi giusti del lavoro

Luigino Bruni domenica 21 luglio 2013
Dovremmo approfittare di questo tempo duro per riflettere, più in profondità e più assieme, sulla natura di quell’attività umana fondativa e fondamentale che chiamiamo la­voro. A questo scopo, ipotizziamo, con un e­sperimento mentale, che una colonia di no­stri concittadini si trasferisca in un’isola de­serta per abitarla. Una volta approdati e siste­mati capirebbero presto che per far crescere e sviluppare le loro famiglie e il villaggio è op­portuno passare da un’economia 'domesti­ca' di auto-produzione a una economia 'po­litica' di scambio, dove ognuno si adoperi af­finché ciò che sa fare sia utile agli altri, e o­rientare così a proprio vantaggio il lavoro de­gli altri abitanti. Se poi tra quegli abitanti ci fossero delle per­sone con abilità che non incontrano i bisogni degli altri, queste persone dovrebbero essere capaci di convincere qualcuno dell’utilità del­le cose che sanno fare. E se non ci riuscissero, dovrebbero presto imparare a fare altri me­stieri, per non finire tra i mendicanti e dipen­dere dalle elemosine - «Solo il mendicante – ci ricordava Adam Smith – sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini» (La ricchezza delle nazioni, 1776).
Questo semplice esperimento può, allora, ri­velarci tre verità a un tempo fondamentali e trascurate: che i beni diventano ricchezza e ben-essere grazie al nostro lavoro; che lavora­re, in una economia di mercato, è essenzial­mente una faccenda di reciprocità; che un si­stema economico si inceppa quando si inter­rompe questa catena di reciprocità lavorativa. Nel corso della storia ci sono stati altri sistemi per organizzare la vita in comune di piccole e grandi comunità. La più antica è la gerarchia sacrale, mentre le più rilevanti su larga scala sono state le varie forme di economia piani­ficata collettivista del Novecento. Tra le alter­native al mercato (che io chiamo civile) c’è an­che il recente capitalismo finanziario globale, che non si è fondato sulla reciprocità dei bi­sogni ma sull’avidità e sulle rendite (la rendi­ta è una deviazione dal principio del buon mercato, proprio perché nega la reciprocità dei bisogni). C’è poi un’altra possibilità, di gran lunga più affascinante, che torna spesso in ambienti cul­turali critici della modernità e del mercato. Questa visione 'romantica' non accetta che siano il lavoro e i bisogni reciproci a orienta­re le attività da svolgere nell’'isola', perché – a dire di chi la coltiva – sarebbe più dignitoso ed etico che ciascuno svolgesse l’attività che ama senza dipendere dagli altri nel mercato, e che lo 'Stato' offrisse a tutti un giusto sala­rio (senza spiegare con quali redditi, e pro­dotti da chi).
Che cosa accadrebbe nell’'isola' se si affer­masse questa visione? Si creerebbe senz’altro un eccesso di attività in sé piacevoli perché arrecano una ricompensa intrinseca a chi le pratica per vocazione e passione. L’elenco di queste attività è semplice da fare: l’osserva­zione degli astri, la scrittura di gialli, la colle­zione di farfalle, studiare economia, ecc. Al tempo stesso, ci ritroveremmo in una comu­nità dove mancherebbero molti mestieri non particolarmente piacevoli, ma molto utili a tutti: spazzini, manutentori delle fogne, mi­natori, becchini, ecc. Una società dove le per­sone non si incontrerebbero tra di loro, per­ché troppo occupati a coltivare, narcisistica­mente, i propri interessi. I due elenchi si allungano di molto se, lascia­ta quella ipotetica isola, ci spostiamo nelle no­stre città complesse, dove tante persone svol­gono lavori che non trovano molto piacevoli (o non abbastanza per svolgerli otto ore al gior­no, per decenni), ma che sono utili agli altri, e spesso indispensabili al ben vivere della no­stra società. In questa lunga fase di crisi del lavoro, che du­rerà ancora molti anni, dobbiamo tener ben presente che la natura più vera del lavoro è la reciprocità, l’incontro di bisogni. Il lavoro ci le­ga gli uni agli altri, è il principale cemento del­la società, persino quando questa reciprocità convive con asimmetrie di potere, denaro, re­sponsabilità – anche se queste asimmetrie so­no sempre una minaccia alla durata e dignità di ogni reciprocità. Lavorare è un’ottima cura di ogni forma di narcisismo, perché ci spinge a metterci nei panni degli altri, e a chiederci: «Che cosa di ciò che so fare, o che potrei fare, interessa anche gli altri?».
Una virtù che aiuta a vivere bene in una economia di mercato è l’empatia, il saper anticipare e intuire i bisogni e i desideri degli altri, e cercare di soddisfarli. Il mercato civile è un meccanismo sociale attraverso il quale ci scambiamo beni e servizi che non verrebbero all’esistenza se ciascuno seguisse soltanto le proprie aspirazioni e vocazioni e il piacere individuale. È anche da questa prospettiva che si può cogliere il significato più proprio della parola interesse. L’interesse è certamente ciò che mi interessa, ma è anche ciò che interessa agli altri, è la relazione che sta tra di noi (inter-esse) e che ci consente di incontrarci. Il secondo messaggio riguarda il rischio di non reciprocità lavorativa che s’insinua spesso nelle nostre imprese e organizzazioni. La vera reciprocità nella vita civile e nel lavoro non è semplice, richiede sempre creatività e impegno in tutte le parti coinvolte. Così accade che, per evitare questa fatica, si cerchino e imbocchino scorciatoie. Pensiamo, ad esempio, a quelle comunità pre­moderne dove le attività di cura erano assegnate alle donne che le dovevano svolgere per 'vocazione', una vocazione che consisteva nel servire tutta la vita altri (maschi soprattutto), i quali pensavano che i propri bisogni di cura e di accudimento fossero soddisfatti dalla vocazione di mogli, figlie, sorelle o suore. È un enorme miglioramento in umanità e dignità che molte di queste attività di cura passino oggi per il mercato (possibilmente civile e non capitalistico), un mercato che in questi casi può diventare un prezioso alleato della reciprocità – anche questo è sussidiarietà. Non cercare e non arrivare alla reciprocità nel lavoro è sempre una scelta parziale e sbagliata. Un mio amico cooperatore sociale si recò un giorno nel carcere della sua città per iniziare lì un’esperienza lavorativa con dei giovani. «Trovai il lavoro delle barbies», mi disse. Quei ragazzi facevano lavori finti, perché svolgevano attività senza reciprocità, ideate allo scopo di tenerli occupati, e quindi dei non-lavori utili a nessuno, tantomeno a loro. «Non devo darmi pace finché questi giovani non si sentiranno utili alla nostra città», continuò. E così mise tutta la sua passione e il suo ingegno per trovare un lavoro vero per quei ragazzi, attività che fossero un’autentica esperienza di reciprocità. E ci riuscì, come ci riescono tanti imprenditori sociali e civili, anche in questa età di crisi, che innovano veramente perché e quando non si accontentano dell’inclusione produttiva ma vogliano e cercano la reciprocità, dove tutti danno e tutti ricevono. Sono convinto che la nostra crisi dipenda anche dall’aver creato nei decenni passati troppi 'lavori' – e non solo nel settore pubblico – che si sono arrestati prima della reciprocità, per insufficiente creatività e impegno da parte di imprenditori, lavoratori, e istituzioni. Eppure, ci sono poche esperienze umane più dolorose di quella di sentirsi fuori dall’intreccio di reciprocità di cui è intessuta la vita in comune. La pensione è spesso una esperienza molto dolorosa se chi lascia il lavoro non continua a sentirsi, in altri modi, utile ai propri concittadini. Ritrovarsi disoccupato è tragico non solo perché si perde lo stipendio, ma perché si esce da questa rete di reciprocità, «la legge del Moderatore del mondo, che ci comanda di ingegnarci di essere gli uni utili agli altri» (Antonio Genovesi, 1767). Dalle crisi economiche e sociali si esce riattivando la reciprocità lavorativa. E per farlo occorre saper guardare il mondo che ci circonda anche con gli occhi degli altri.
​​​​