Opinioni

A chi interessa l'affermazione del Califfato. Iraq e Siria, ecco perché l'Is avanza

Luca Geronico giovedì 11 giugno 2015
Se doveva essere un «serrate le fila», il vertice di Parigi di martedì 2 giugno della Coalizione internazionale contro lo Stato islamico, ha convinto davvero pochi. Grande officiante il ministro degli Esteri francese Laurent Fabious, copresidente il premier iracheno Haydar Abadi, il summit degli oltre venti Paesi impegnati a combattere lo Stato islamico voleva verificare, dopo dieci mesi di raid e a quasi un anno dalla proclamazione del Califfato, obiettivi e strategie. Il «non si sta facendo abbastanza», un refrain nelle dichiarazioni finali, è stato solo un rimpallo di responsabilità: «Il supporto aereo non è abbastanza» ha affermato il premier iracheno perché l’Is è mobile e si muove in piccoli gruppi. Presa la città di Ramadi, ora gli uomini del Califfato sono a meno di cento chilometri da Baghdad, invasa da una nuova ondata di profughi. A fine maggio, appena caduta la città il segretario alla Difesa statunitense Ashton Carter, aveva accusato l’esercito iracheno di «non aver voluto combattere». Parole pesantissime, che hanno riportato al 9 giugno scorso quando Mosul cadde in mano all’Is senza che l’esercito di Baghdad sparasse un solo colpo.   Gli alleati a Parigi hanno chiesto ad Abadi di «fare di più» per coinvolgere le milizie sunnite contro il Califfato. Come 'garanzia' Abadi ha portato i 5mila combattenti sunniti già mobilitati contro l’Is. Solo schermaglie diplomatiche: i cinque punti di Abadi per riprendere Ramadi e tutta la regione dell’Anbar (maggiori aiuti alle tribù, più truppe, ristrutturazione della polizia, deciso comando governativo e fondi per la ricostruzione) sono parsi una stanca riproposizione della strategia che, invece dell’“offensiva di primavera” per liberare Mosul, ha subito nel cuore di maggio il sacco di Ramadi. In questa guerra per bande mediorientale, che sta trasformando l’iracheno Haidar Abadi – emulo del vecchio presidente afghano Hamid Karzai – nel “sindaco di Baghdad” tenuto in ostaggio dai signori della guerra, il vertice di Parigi è così parso il paravento diplomatico di una ben più cruda realtà sul terreno che, per inerzia, potrebbe portare a una spartizione di Iraq e Siria. Aver smantellato un decennio fa l’esercito iracheno e decapitato tutte le strutture di comando del vecchio partito Baath, che si appoggiava sulle tribù sunnite, ha creato un humus quanto più fertile a un consenso cieco e incondizionato allo Stato islamico in tutto l’Iraq centrale.   Questo spiega perché, secondo quanto riferito al Washington Post da un responsabile della sicurezza irachena, il contrasto all’offensiva jihadista su Ramadi da parte delle forze del governo è stato un «caos completo». Dalle zone alle spalle dell’esercito e delle milizie sciite di supporto, sono arrivate «cellule dormienti» che, indossando uniformi della polizia, si sono confusi con le forze governative. Tutte le strutture dell’esercito sono state circondate, mentre i jihadisti in un solo giorno sono stati capaci di usare 17 autobomba. Segno di una connivenza di autorità e popolazioni locali non contrastabili con raid aerei, ma nemmeno con dichiarazioni da dopo-vertice. Ancora più complicata, torbida e carica di efferata violenza la situazione in Siria. La caduta della città di Palmira e del suo terrificante carcere – uno dei simboli della repressione del regime – in mano all’Is, sembra aver aperto un corridoio per l’avanzata del Califfato fin verso Damasco. La furia distruttrice contro uomini e simboli culturali degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, si confronta con la brutalità di un regime che non cessa di usare i barili-bomba – come denunciato anche ad Avvenire dall’inviato speciale Onu Staffan de Mistura – sui civili. Una avanzata verso Damasco che, ha denunciato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, avviene con raid aerei del governo di Damasco contro postazioni dell’opposizione moderata per favorire l’avanzata dei jihadisti. Una strategia che servirebbe ad accreditare il regime baathista come unico elemento d’ordine contro una indistinta violenza jihadista. Intanto la Turchia ha stretto accordi con gli Usa per addestrare ed equipaggiare i ribelli moderati: galassia di formazioni attorno al Libero esercito siriano e al cartello politico del Consiglio nazionale siriano che appare, a confronto del Califfato, a dir poco evanescente. Ankara ha pure lanciato segnali d’intesa con l’Arabia Saudita e il Qatar per creare una “no-fly zone” sulla Siria settentrionale sempre per sostenere i 'ribelli moderati'. Un vero 'pantano vietnamita' in salsa mediorientale indecifrabile ed enigmatico: una settimana fa sul sito di al-Jazeera, in un sondaggio on line ben l’81% degli oltre 37mila votanti si sono detti «sostenitori delle vittorie dello Stato islamico».  Torniamo, dato questo scenario, all’impegno della Coalizione: di fronte alla barbarie della violenza esibita sui social network, di fronte al disastro umanitario di un conflitto che ha fatto oltre 220mila vittime in Siria e la cifra incredibile di oltre 12 milioni di sfollati e profughi (2 in Iraq, dieci tra profughi e sfollati interni in Siria) l’impegno della Coalizione appare poco più che un atto simbolico: 4mila raid da agosto, molti dei quali falliti per un deficit dell’intelligence, impallidiscono rispetto ai 40mila fatti in tre mesi dalla coalizione Nato in Kosovo nel 1999 su un territorio infinitesimamente più piccolo. Quel che appare evidente è la mancanza di obiettivi politici chiari e condivisi dai Paesi della coalizione, come le titubanze nei confronti di interlocutori, troppi e troppo poco affidabili nella regione. Se la nuova variabile potrebbe essere il mutato ruolo regionale di Teheran, è sinora chiaro che nessuno vuole assumersi l’onere di una presenza sul terreno.   Così, nell’inerzia internazionale, l’Is controlla un terzo del territorio dell’Iraq e due terzi di quello della Siria: il risultato di connivenze e finanziamenti di alcune istituzioni del Golfo al jihadismo, ma anche di una «afasia della diplomazia», che rischia di consegnare allo Stato islamico un territorio trasversale alla vecchia frontiera fra Iraq e Siria tenuto in mano da al massimo 50mila uomini. Ma l’impressione è che in quella regione il tradizionale concetto di sovranità, legato alla intangibilità dei confini nazionali sia messo in scacco nel Medio Oriente.   «Ormai gli accordi di Losanna del 1923 non sono più validi», dichiarava apertamente in una intervista un oscuro funzionario dell’Upk curdo in una intervista, fatta al di là del confine del Kurdistan iracheno a Makmur. In altri termini una ridefinizione dei confini stabiliti alla caduta dell’impero Ottomano. «C’è un piano, che si può far risalire a Kissinger e di cui Biden fa parte, di un nuovo Medio Oriente, di cui l’Is fa parte: creare entità o Stati deboli per controllarli, sfruttare il petrolio e garantire la sicurezza di Israele», aveva dichiarato in una intervista in ottobre il solitamente pacato patriarca caldeo di Baghdad Louis Sako. Parole simili a quelle di poche settimane fa del vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo: «C’è chi vuole dividere tutta l’area in piccole entità settarie, come hanno provato a fare anche in Iraq, per mettere gli uni contro gli altri e continuare a dominare tutto».   Quello che potrebbe avvenire è dunque una duplice spartizione. Divisione della Siria: con il regime arroccato a Damasco e nella zona costiera di Latakia, mentre la zona centrale resterebbe in mano ai jihadisti di Is e affiliati, a oppositori 'moderati' foraggiati da Turchia, Usa, Arabia Saudita e Qatar. Una 'vietnamizzazione' che equivarrebbe al caos, in cui nessuno potrebbe e vorrebbe in futuro intervenire. Una tripartizione dell’Iraq: il Nord a un Kurdistan iracheno già di fatto indipendente, il centro sunnita in mano all’Is ed epigoni, il sud sciita fedele a una Baghdad chiaramente agganciata a Teheran. Una parola meriterebbe in questo scenario il Kurdistan: per quanto inviso ad Ankara, un governo ad Erbil potrebbe essere un baluardo per la tutela dei diritti umani e la sperimentazione di nuove istituzioni. Ma tutto questo richiederebbe, con una soluzione politica per forza e per necessità da congelare, almeno un effettivo e ben organizzato piano Marshall umanitario internazionale.  Solo con aiuti concreti e prospettive di futuro per i 12 milioni di profughi, si può pensare di rubare il consenso al Califfo della morte e garantire un po’ di stabilità all’intero Mediterraneo. Pane e prefabbricati, ma anche caschi blu a garantire zone cuscinetto per i sopravvissuti all’anarchia mediorientale. L’inerzia, anche umanitaria, equivarrebbe a cedere su ogni fronte alla notte del caos.