Opinioni

Il direttore risponde. Nuove povertà. Doveri più forti

sabato 2 luglio 2011
Caro direttore,sono un ragazzo di 50 anni residente nel centro del ricco Nord Est, dove la crescita del Pil è alla tedesca, come dicono alcuni giornali. Ho lavorato per 25 anni come lavoratore autonomo, prima come agente di commercio e poi come responsabile commerciale. Ho sempre lavorato mediamente 16 ore al giorno, e percorso l’Italia in lungo e largo per milioni di chilometri. Nel frattempo ho sempre studiato. Ho letto centinaia di libri sulla vendita e la comunicazione, ho partecipato a decine di corsi di vendita, ho partecipato a due master, mi sono laureato in Discipline della ricerca psicosociale e mi sto per laureare in Psicologia sociale del lavoro e della comunicazione. L’ultima azienda per cui ho lavorato ha chiuso a fine 2010 e nello stesso periodo mi sono ammalato e sono stato riconosciuto invalido civile al 75% (iscritto alle categorie protette). Sono sposato e ho una figlia adolescente e mia moglie fa un part time come commessa in un negozio di un centro commerciale, ma l’hanno già avvisata che entro fine anno chiuderanno, perché nonostante le continue promozioni non vendono più niente. Per trovare un nuovo lavoro ho fatto centinaia di colloqui rivolgendomi non solo ad aziende, ma anche ad agenzie private di selezione del personale. Cercando di chiedere ogni volta un feedback sul colloquio, ho constatato il pregiudizio verso i portatori di handicap (diversamente abili ) e gli anziani (diversamente giovani ). A molti selezionatori ho fatto presente che non si può scrivere nella ricerca «massimo 35enne» (il presente annuncio è rivolto ad entrambi i sessi, ai sensi delle leggi 903/77 e 125/91, e a persone di tutte le età e tutte le nazionalità, ai sensi dei decreti legislativi 215/03 e 216/03.). In realtà per gli over 45 non c’è posto neanche per fare i lavori più umili. Per recuperare un po’ di soldi mi sono venduto le targhe premio in oro o argento dei miei successi nelle vendite. Ho girato alcuni negozi che acquistano oro, che ultimamente sono spuntati come funghi nelle varie città e con stupore in ognuno di essi ho sempre trovato la fila di persone. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che gli italiani si stanno vendendo tutto. Il famoso sociologo francese Serge Latouche afferma che non è possibile un modello di continuo sviluppo in un mondo finito. Dice inoltre che siamo lanciati su una macchina a trecento chilometri all’ora contro un muro e siamo senza pilota. Ritornando alla mia storia, ho una pensione mensile di 250 euro e quindi sono un "nuovo povero", ma sono anche per la mia età un "escluso sociale".

R.Z.

Siamo quasi coetanei, caro signor Roberto. E anche per questo mi viene naturale immedesimarmi nella sua situazione, anche se la mia è una condizione invece felice dal punto di vista professionale e decisamente “inclusiva” sul piano sociale. Il suo racconto mi tocca nel profondo. Rafforza le motivazioni che spingono me e i miei colleghi a indagare e far “parlare” su Avvenire il disagio profondo e le vecchie e nuove difficoltà di vita e di lavoro che oggi segnano e piagano l’Italia. Ma lei mi fa anche tornare a riflettere sul fatto che nulla, qui e ora, ci è dato per sempre. Mi conferma che, purtroppo, come nel suo caso, a volte non basta nemmeno aver meritato – giorno dopo giorno, successo dopo successo – riconoscimenti e “giusta mercede”. Credo, naturalmente, che noi cristiani siamo – dovremmo sempre essere – capaci di un’altra logica e di una più grande libertà, non piegate ai criteri di questo mondo e capaci di rispettare e dare senso e valore a ciò che altri disprezzano, a cominciare proprio dalla povertà. Ma so anche quali sono le concrete preoccupazioni di un padre e di una madre di famiglia. So che quando la sofferenza e l’ingiustizia entrano nella nostra vita e in quella di chi ci sta accanto, come pure nella vita dei nostri fratelli e concittadini, riusciamo a capire meglio perché a noi cristiani non sono – non dovrebbero mai essere – consentite indifferenza, rassegnazione e inazione. Per questo, ascoltando l’invito del Papa e dei vescovi, facendoci laicamente carico della responsabilità di cittadini con tutta la chiarezza dei valori cardine del nostro umanesimo e con la guida e la forza che ci è data dalla Dottrina sociale della Chiesa, dobbiamo – e ancora di più dovremo – pensare e agire anche politicamente per cambiare in meglio la nostra società. A lei che dimostra, nonostante le sue cicatrici – così evidenti in questa lettera stimolante e amara – di essere un “portatore sano” di ironica, tenace e mai lamentosa speranza, ogni possibile e fraterno augurio. Con un supplemento, mio, di speranza: che qualcun altro, leggendola, capisca – come l’ho capito io – quanto valgono la sua intelligenza, il suo coraggio e la sua esperienza. E che questo possa aprirle quella prospettiva che, ora, pare impossibile.