Opinioni

Le parole del Papa, la prassi della Chiesa. Normalità del bene ciò che teme il boss

Antonio Maria Mira martedì 8 luglio 2014
La sosta davanti alla casa del boss della ’ndrangheta nel corso della processione a Oppido Mamertina e il rifiuto di alcuni (solo alcuni) detenuti mafiosi di partecipare alla Messa dopo la scomunica di Papa Francesco spiegano più di tante parole quanto il cammino verso la liberazione dalle mafie sia ancora lungo e pieno di ostacoli. Ma non possono né devono far arretrare. Papa Francesco nella sua forte omelia a Cassano all’Jonio ha indicato la via. Da un lato la chiarezza delle parole di condanna. «I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati». Parole nette, certamente quelle che più hanno colpito, quelle più citate. Ma il Papa ha pronunciato anche parole di impegno, parole di sprone, quasi un programma antimafia. Ancor più importanti da ricordare dopo questi preoccupanti episodi. E soprattutto da mettere in pratica. «La ’ndrangheta è adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no!». Parole che, evidentemente, qualcuno nel paese della Piana di Gioia Tauro non ha voluto capire né mettere in pratica, al punto da far fermare (o permettere che lo si facesse), la statua della Madonna, la Madre di Cristo, davanti alla casa del boss. Niente inchino, come si era scritto all’inizio, ma solo una breve sosta accompagnata da un breve applauso. Non sono necessarie forzature mediatiche, perché la realtà è già abbastanza grave. Così come Papa Francesco era stato chiarissimo. «Noi cristiani non vogliamo adorare niente e nessuno in questo mondo se non Gesù Cristo». Quel gesto, quella sosta che rende onore al boss è una grave offesa al Figlio di Dio e a sua Madre. Comportamenti irrecuperabili? No. Proprio Papa Bergoglio nei suoi incontri con i carcerati ha sempre parlato di speranza e perdono, strettamente legati a giustizia e verità. Parole limpide, dunque, per chi vuole capire con animo e mente aperti. Ma il Papa va oltre e indica la strada dell’impegno, spiegando che «bisogna spendersi di più perché il bene possa prevalere». Tanta Chiesa lo fa da tempo, vescovi, sacerdoti, laici, associazioni in prima linea, ed è quindi scorretto e segno di miope prevenzione utilizzare questi episodi per attaccarla. Ma sarebbe non meno grave sminuire la gravità di questi e altri episodi. Bisogna dire con chiarezza che ci sono ancora ritardi e resistenze, occhi chiusi e voci silenti. «In nome del mio popolo non tacerò», aveva scritto don Peppe Diana e lo faceva davvero, predicando e agendo. Così come don Pino Puglisi e tanti altri parroci di frontiera, ma innanzi tutto preti veri, anche in Calabria. Serve fare di più, con continuità e coerenza. Sempre. Con una chiarezza definitiva, come quella delle parole di Papa Francesco. Ma non lo si deve chiedere solo alla Chiesa che anzi in certi territori più difficili è l’unica testimonianza vera e concreta contro le mafie. Tocca alla politica e all’economia dimostrare di essere impermeabili alle influenze delle cosche. Ricordiamo che solo dopo la denuncia di Avvenire e le pressioni del governo il Comune di Oppido Mamertina decise di costituirsi parte civile nel processo per gli attentati alla cooperativa Valle del Marro, nata col sostegno della diocesi e del progetto Policoro della Cei. Eppure, dovrebbe essere normale farlo. Già, fin quando certi comportamenti, certi gesti, certe parole non saranno davvero normali, vita quotidiana, la strada di liberazione dalle mafie sarà ardua. Normale non onorare il boss, normale dire no ai favori del boss, normale denunciare, normale non pagare il pizzo, normale sbarrare le porte dei Comuni alle mire mafiose. Il Papa ha dovuto usare parole straordinarie per ricordarlo. Ora tocca a tutti metterle davvero in pratica. Con la dirompente forza di un normale impegno quotidiano. Non con isolati gesti eroici, ma con una vera, concreta e corale rivoluzione culturale. È questo che le mafie temono di più.