Opinioni

Analisi. Nord, la “normalità” della corruzione

Diego Motta venerdì 13 giugno 2014

Da quando la questione settentrionale è diventata questione morale? Perché da Tangentopoli agli scandali che hanno coinvolto il Mose e l’Expo, il tempo sembra essere trascorso invano? Nell’esame di coscienza collettivo, colpevolmente tardivo, che si è aperto in queste settimane, il dibattito pubblico si è concentrato molto, oltreché sulle indagini della magistratura, sull’urgenza di contromisure immediate ed efficaci (per la verità finora soltanto annunciate) in grado di arginare la corruzione. Il punto è che nessuno ha cercato di indagare sulle cause profonde di un fenomeno che, almeno al Nord e soprattutto in materia di grandi opere, sembra essere diventato un tutt’uno col gigantesco blocco di potere politico ed economico che ha egemonizzato l’ultimo ventennio. Eppure è da lì che si deve cominciare per avviare una seria autocritica. «Dagli anni Novanta a oggi abbiamo assistito a un processo di progressiva de-costruzione» riflette Lorenzo Sacconi, ordinario di Politica economica all’Università di Trento, autore di diverse pubblicazioni su etica ed affari. «L’emblema, qualche anno fa, fu il tentativo di portar fuori dai confini della pubblica amministrazione la disciplina delle opere pubbliche, affidandole alla Protezione civile. Dal falso in bilancio ai tempi di prescrizione dei reati, si è sempre avuta la sensazione che ci fosse chissà quale stato di eccezione in grado di giustificare la non applicazione delle norme. Così la corruzione è diventata una convenzione sociale». La normalità della tangente, la garanzia dell’assegnazione di lavori al massimo ribasso, la scelta consapevole di aggirare il Fisco sono state erette a sistema, una specie di pubblica amministrazione parallela, mentre ufficialmente le parole d’ordine andavano nella direzione opposta: meno tasse, meno Stato, meno burocrazia. Ora il paradosso del Nord è svelato, in modo persin brutale. Le scosse arrivate con Mani Pulite hanno fatto traballare un intero apparato, che però ha saputo resistere ed è rimasto in piedi. Mentre si cementava un asse di ferro tra i partiti al potere, che vedevano riconfermati gli equilibri a ogni tornata (centrodestra al governo con maggioranze "bulgari" nelle regioni settentrionali, centrosinistra alla guida prevalente in alcune città-simbolo) si stratificava il legame anche con una parte di imprese. «È come se si fosse legalizzato un monopolio, con la creazione di vere e proprie infrastrutture, come il Consorzio Nuova Venezia, chiamate a fare da raccordo e da stanza di compensazione delle esigenze di mondi diversi» continua Sacconi. «Con una differenza fondamentale rispetto al passato – osserva Daniele Marini, a lungo direttore della Fondazione Nord Est –. La corruzione dai partiti si è spostata verso le persone, dando luogo a un sistema che ha alterato le regole del mercato». Per un ex sindaco come Maurizio Fistarol, primo cittadino di Belluno per molti anni e poi animatore insieme a Massimo Cacciari del movimento "Verso Nord", «la questione morale è diventata una questione politica. L’idea di un blocco di potere immobile, che fosse dispensatore di affari e opportunità per determinate aziende, ha portato al coinvolgimento in alcuni casi delle opposizioni, cooptate negli affari con qualche briciola». Al netto delle responsabilità istituzionali, su cui si è espresso e si esprimerà l’elettorato, è in particolare sul ruolo delle aziende che si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi lunedì a Milano ha detto che «i corruttori non possono stare tra noi, questo deve essere chiaro». «Un messaggio che doveva arrivare prima e che ora mi fa sorridere – riprende Fistarol –. In realtà, in corso d’opera, di parole chiare sui lavori in fieri da parte delle associazioni d’impresa, ne ho sentite pochissime». Si è dunque lentamente affermata quella che Lorenzo Sacconi chiama «la corrosione culturale, la regola del così fan tutti», che ha portato all’incrocio perverso di percorsi e obiettivi: le grandi opere se le aggiudicano gli amici degli amici, che poi alimenteranno l’ondata del malaffare attraverso più filiere (industriali e non) col solo scopo di garantire i soliti noti, anche attraverso il sostegno (sottobanco) durante la campagna elettorale. Così, nei posti chiave finiscono persone che non hanno particolari competenze, ma possono rappresentare determinati interessi. Sarebbe meglio regolarizzare queste lobby, renderle trasparenti come avviene negli Stati Uniti. Invece no, «non c’è più distinzione tra guardie e ladri, si cerca un capro espiatorio che possa pagare per tutti, una mela marcia dentro un sistema che vorrebbe ancora presentarsi come sano» spiega l’economista dell’Università di Trento.Il problema, sottolineava recentemente il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è che «la corruzione è presente in tutti i Paesi del mondo, ma da noi ha proporzioni fuori misura». In questo senso, argomentava Marco Vitale su arcipelagomilano.org, altro che nuova Tangentopoli, «si tratta di una situazione ben diversa e ben peggiore di allora», perché «la classe politica non ha fatto altro che legiferare a favore della corruzione, mentre la classe imprenditoriale non ha fatto niente, assolutamente niente, per combatterla al suo interno». Smantellare consolidate strutture di potere sarà molto difficile, in un Nord incrostato da vecchie e nuove collusioni. Alcune buone regole, però, si potrebbero adottare sin da subito. Il primo nodo non è tanto aumentare le sanzioni penali, ma impedire che chi ha alle spalle condotte discutibili possa rientrare in gioco. Basta con le stesse facce, sempre pronte a spartirsi la torta appena calano i riflettori della cronaca. Secondo: le società coinvolte negli appalti non dovrebbero più poter fare affari sporchi se a controllarle è lo stesso proprietario, mentre occorrerebbe disciplinare sempre di più l’area "grigia" dei comportamenti a rischio, che va dalla trasparenza in materia di conflitti d’interesse al finanziamento ai partiti e alla politica.

«Gli standard etici e i codici per gli appalti sono sempre stati poco impegnativi per chi doveva poi rispettarli – spiega Sacconi –. In testa alle priorità dovrebbe esserci l’esigenza di plasmare una nuova cultura. Chi pensa che l’etica debba dare un ritorno d’immagine, ha già sbagliato. In Europa si parla di responsabilità sociale condivisa e di democrazia deliberativa. I processi decisionali dovranno essere sempre più trasparenti e puntare a coinvolgere al massimo i cittadini». «Cominciamo con l’affidare la direzione lavori di Expo e di altri progetti di questa natura a una società di ingegneria di elevato standing internazionale» propone Vitale. A quel punto il Nord della borghesia produttiva, il territorio d’elezione per milioni di piccole e medie imprese, finirebbe davvero commissariato: dall’estero. E per la questione settentrionale si tratterebbe di una fine ingloriosa.