Opinioni

Migranti, interessi generali, ideologie. Non sprechiamo il decreto flussi

Maurizio Ambrosini martedì 13 dicembre 2022

Il governo ha promesso di emanare il decreto-flussi per l’ammissione di lavoratori stranieri entro fine anno, come d’altronde prevede la legge-quadro sull’immigrazione. Forse mai come quest’anno però intorno alla determinazione dei nuovi ingressi si confrontano esigenze contrastanti. Da tempo diverse organizzazioni imprenditoriali premono per una maggiore apertura, non riuscendo a trovare la manodopera di cui necessitano: edilizia, settore turistico-alberghiero, agricoltura.

All’inizio dell’estate scorsa, prima che si scatenasse la competizione elettorale, anche ministri e sottosegretari targati Lega avevano appoggiato queste richieste. Ma la coalizione di destracentro vittoriosa alle elezioni ha nel contrasto all’immigrazione una delle sue “bandiere” più sventolate, come le prime uscite del governo Meloni non hanno mancato di confermare.

Il nuovo decreto-flussi non è ancora nato, ma è già preso tra due fuochi: dapprima il governo Meloni ha annunciato di voler subordinare le nuove ammissioni alla stretta sul reddito della cittadinanza, in sostanza prevedendo di riuscire a mandare gli attuali disoccupati nei cantieri edili, nelle cucine dei ristoranti, nei campi dell’agricoltura mediterranea.

Successivamente, il ministro Piantedosi ha annunciato che il decreto uscirà, ma privilegiando i Paesi che collaboreranno nel riammettere gli immigrati espulsi, così ammettendo implicitamente, fra l’altro, che i decreti (in)sicurezza salviniani avevano fallito proprio sul loro punto qualificante.

Con la prima aspirazione del governo contrasta il fatto che i lavoratori immigrati non sono arrivati dopo il 2018, quando è entrato in vigore il Rdc, ma ben prima, mentre i disoccupati italiani, che oggi non sono disponibili ad accettare lavori sgraditi solitamente affidati agli immigrati, non lo erano neanche prima di percepire il Rdc. Il mercato del lavoro è molto più complesso e segmentato di quanto credano i riformatori da tastiera o da talk show televisivi. Titoli di studio, esperienze pregresse, vincoli familiari, distribuzione territoriale dei lavoratori e delle occupazioni, senza dimenticare le aspirazioni delle persone, richiedono una mediazione tra domanda e offerta di lavoro molto più impegnativa della minaccia di esclusione dalle provvidenze pubbliche.

La seconda aspirazione – subordinare le ammissioni alla collaborazione nelle espulsioni – comporta altri problemi. Anzitutto le espulsioni dai Paesi democratici, e segnatamente dall’Italia, sono poche e complicate per varie ragioni, la prima delle quali sono i costi del trattenimento, identificazione e rimpatrio dei malcapitati. La collaborazione dei Paesi di origine è soltanto un ingranaggio di una macchina che necessita di vari pezzi e molte risorse per funzionare.

Per esempio, i Cpr non sono solo luoghi invivibili e disperati, ma anche scarsi e costosi. Sorge poi un altro problema: anche ammettendo che l’impostazione annunciata dal governo ottenga dei risultati, l’Italia non espellerà gli immigrati irregolari più pericolosi o giudicati colpevoli di seri reati, ma quelli più facili da rimpatriare grazie agli accordi bilaterali. Già oggi tra gli espulsi la prima nazionalità è quella tunisina, per il semplice fatto che il governo collabora, il Paese dista un breve braccio di mare e il rimpatrio costa poco. Si punta forse a esibire dei meri numeri, dimostrando di aver aumentato le espulsioni? Infine, uno strumento come il decreto- flussi viene deviato dalla sua funzione propria, quella di approvvigionare il mercato dei lavoratori di cui ha bisogno, per piegarlo alla funzione impropria di strumento per politiche securitarie.

Anziché ammettere lavoratori che parlino italiano, posseggano le competenze necessarie, abbiano eventualmente frequentato corsi di formazione organizzati da enti governativi e non governativi italiani operanti all’estero, e che possano essere accolti da parenti già insediati in Italia, rischiamo di preferirne altri per il solo fatto che i loro governi collaborano alle espulsioni. Come mostra quanto si sta verificando nei principali Paesi dell’Europa Occidentale – Germania, Francia e Spagna – l’ammissione di lavoratori, non più soltanto altamente qualificanti, si sta imponendo come una risorsa per il rilancio economico. Speriamo di non rimanere indietro, e magari di doverci pentire di aver affrontato un tema del genere con i paraocchi degli ideologismi.