Opinioni

Volere o no figli, segno e senso di una crisi. Non per libertà ma per vita piena

Ferdinando Camon venerdì 19 marzo 2021

È un fenomeno ritornante: quello dei giovani che non vogliono figli. Coincide con le crisi della società, l’impoverimento, la decadenza della nazione, la caduta del Pil, l’apparizione sulla scena della Storia di movimenti o gruppi eversivi o terroristi, la riduzione del benessere (che vuol dire anche dei viaggi): la vita si fa più grama, più ferma, meno soddisfacente, e allora perché trasmetterla? Se noi non viviamo come vorremmo perché mettere al mondo figli che non potranno vivere come vorrebbero? Ho qui davanti il sondaggio della Fondazione Donat Cattin pubblicato su queste pagine il 16 marzo, dal quale risulta che il 51% degli intervistati si augura un futuro senza figli, e spiega bene perché: perché non c’è lavoro, lo Stato non dà sufficiente assistenza alle famiglie con figli, non ci sono valori stabili, e le stesse coppie si basano su relazioni che non garantiscono la durata.

C’è anche una piccola ma tenace fetta di nemici-dei-figli che dichiarano brutalmente: la felicità sta nella libertà, e i figli sono un intralcio alla libertà. Sono ragionamenti fondati, hanno una coerenza? Purtroppo sì. In primo luogo, non c’è lavoro, il lavoro non cresce anzi cala. Tra tutti i problemi che abbiamo, questo è il più urgente. Gli economisti legano il calo dell’occupazione anche al calo dell’istruzione: è un legame fondato, da noi l’apprendimento s’è bloccato, i giovani che crescono adesso hanno meno istruzione dei giovani di una generazione fa, la scuola oggi funziona a singhiozzi, e nella mia concezione (che può essere sbagliata, lo ammetto) l’istruzione si apprende dentro la scuola, non a distanza.

Perfino gli studenti vogliono andare dentro la scuola, non fare istruzione a distanza, e a chi li disapprova perché pensa che gli studenti vogliano andare a scuola perché si divertono rispondo che sì, è così, ma il divertimento è apprendimento, s’impara stando insieme. S’impara stando con i coetanei che imparano. E se oggi non s’impara, domani non si crea lavoro. Quando siamo usciti dalla guerra eravamo miserabili, ma le scuole avevano un’attrazione, i figli hanno imparato più dei padri, e man mano che i figli imparavano il lavoro cresceva. L’Italia era piena di figli, le famiglie eran numerose, molto più di adesso, non perché le famiglie avessero più di quel che hanno adesso, ma perché la vita era più importante.

Adesso la vita ha a disposizione molto di più, ma vale molto di meno. Non è più un assoluto. Le coppie fanno un bambino, al massimo due. Quelle che ne fanno due, è perché uno solo non ha il senso della relazione, cresce sperduto. Da due in su impara il rapporto, quindi il confronto, quindi i diritti altrui, e la limitazione dei propri. La famiglia è una piccola società. Nella quale non soltanto i figli imparano a tener conto gli uni degli altri, ma anche i genitori imparano a tener conto della generazione futura: senza questa percezione del chi vien dopo, quel che fai ha meno senso, meno futuro, meno durata. Capisco cosa voglion dire quelli che non vogliono figli perché non vogliono ostacoli alla propria libertà. Ma i figli sono la garanzia contro la morte, fare figli vuol dire non morire. Amare la vita. Tanto da volerla vivere dopo averla vissuta.

Una volta non avere figli era una disgrazia. Oggi per molti è una fortuna. Io ho la metà dei figli che avevano mio padre e mia madre, ma chi è più felice, io o loro? Loro, senza dubbio. Ricordo ancora quand’è nato il mio primo figlio, sono andato a vederlo in ospedale insieme con un amico che non aveva e non voleva figli, e accanto al lettino del piccolo s’è svolto questo dialoghetto, in cui la prima battuta (maligna) è del mio amico nemico- dei-bambini: «È venuto a prendere il tuo posto», «Che dunque non resterà vuoto».