Opinioni

Le ragioni della buona cura. Non esistono ex persone

Francesco Ognibene martedì 10 febbraio 2015

Alla fine, ha sempre ragione il Samaritano. Il gesto che risolve ogni ferita umana – del corpo come dello spirito – è l’incontro con qualcuno che sappia vedere, fermarsi, fasciare, con la pazienza e lo spirito d’iniziativa di "caricare" sulle proprie spalle, che ascolti e capisca cosa occorre, e sia disposto a pagare di persona. È il gesto umano e non burocratico di chi si prende cura, e che anzitutto ha occhi e cuore per riconoscere la vita dell’altro – in qualunque modo si manifesti – e il bisogno che essa esprime, pur senza le grida che forse avrebbero costretto persino i frettolosi e gli indifferenti a fermarsi senza tirar dritto. Se si ha l’onestà di guardare a ciò che ci costituisce e ci accomuna, appare chiaro che il primo diritto umano è la protezione della vita anche quando agli occhi del mondo – del suo spietato metro efficientista – si presenta come uno straccio inservibile. Anche allora, proprio allora, si deve saper riconoscere che dietro quell’apparenza che non attira sguardi, e semmai li respinge, c’è intatta la stessa dignità di ciascuno. È davanti a quell’uomo «mezzo morto» che è decisivo se il Samaritano transita di lì oppure no. Perché il suo sguardo rovescia la storia delle due metà del mondo: i sani che "passano", e i malati che attendono di sapere da come saranno guardati che ne sarà di loro. Ogni paziente – ma anche l’anziano, il disabile, il nascituro malformato... – ci pone una domanda, costituisce un esame talora davvero esigente per la nostra capacità di guardarci attorno senza rassegnarci alla società che spazza via chi non è ritenuto all’altezza. Ed è dal letto delle persone apparentemente prive di coscienza che giunge la domanda più enigmatica e angosciante, davanti alla quale c’è chi si copre gli occhi (o li spalanca senza vedere davvero) arrivando a esclamare che quella «non è vita». Chi «non è vita»? E «non è vita» per chi? È accettabile che l’idea stessa di vita umana sia discrezionale, per me sì per te no, e che si possa ipotizzare persino un sistema di norme che codifica questo arbitrio in grado, da solo, di liquefare il collante etico di una società? Non sarà, piuttosto, che non si sa più in quale serbatoio di umanità pescare le risorse per farsi carico dell’uomo silenzioso e sofferente, degradato a "vegetale" sin dal nome purtroppo ancora prevalente della sua patologia? Solo l’invenzione del "diritto di morire" può travestire la vergogna di considerare qualcuno di noi come una ex persona.Ecco perché il fatto che ogni anno dal 2010 ritorni la «Giornata nazionale degli stati vegetativi», nel 9 febbraio che anche ieri ricordava la tragica morte procurata di Eluana Englaro, è un appuntamento da non lasciar passare sotto anestetizzato silenzio.Nessun intento polemico: la dedizione con la quale centinaia di famiglie versano ogni giorno sui loro figli, fratelli, padri, madri incoscienti l’olio di un amore che cura – e che è praticamente la sola terapia capace di entrare nel buio di una condizione ancora quasi del tutto inesplorata – è da sola una risposta definitiva a quanti sei anni fa arrivarono a dire che il caso Englaro era una «nuova breccia di Porta Pia», come se al capezzale di disabili gravi andasse combattuta una guerra a sfondo politico-religioso. Quella breccia non solo, da allora, non è stata attraversata da nessuno, ma probabilmente non c’è mai stata. Averla evocata ha però contribuito a spostare l’attenzione dal dovere di impegnarsi per decifrare i messaggi in arrivo dalle persone in condizioni di «minima coscienza» verso il terreno sdrucciolevole dell’«autodeterminazione», quel libertinismo etico che nel nome dei diritti individuali pretende di lasciare la vita più vulnerabile in balìa di chi passa. Non dev’essere necessario un nuovo eclatante caso nazionale per scuotere l’opinione pubblica e costringerla a prendere partito scegliendo se stare con chi prosegue o chi si ferma ad accudire. La Francia sta conoscendo un trauma di questo genere, strattonata attorno alla sorte del "vegetativo" Vincent Lambert – conteso tra la moglie che lo vorrebbe staccare dalla nutrizione assistita e i genitori che disperatamente si oppongono –, guarda caso proprio mentre in Parlamento parte l’iter della nuova legge sul "fine vita".Il dibattito sulla sorte degli esseri umani estremamente fragili s’è fatto globale, le risposte sbrigative proliferano, l’era di una medicina tecnologica e potente è la stessa della massima fragilità umana affidata a sentenze, campagne mediatiche, maggioranze parlamentari. Ma in tutto il mondo il Samaritano continua a passare, chiedendoci se vogliamo essere dei suoi.