Opinioni

La società del rischio e ciò che ci salva. Noi, solidali perché mortali

Mauro Magatti mercoledì 26 febbraio 2020

Viviamo dunque nella società del rischio. Come ci aveva insegnato, già molti anni fa, il grande sociologo Ulrich Beck. Per quanto potenti e ben organizzate, anche le società avanzate rimangono vulnerabili. La novità sta nella natura e nella portata dei rischi. A differenza del pericolo, che percepiamo attraverso i sensi, il rischio è più difficile da riconoscere e valutare. Della sua pericolosità sappiamo solo grazie agli strumenti di analisi di cui disponiamo. L’esperienza – personale e collettiva – non basta. Così, è vero che grazie alla scienza sappiamo molto di più e possiamo difenderci meglio. Ma questa maggiore consapevolezza ha anche un risvolto problematico. Il singolo cittadino non è uno scienziato. Per capire cosa sta accadendo deve affidarsi agli esperti che, in genere, hanno valutazioni diverse. Ma, soprattutto, il nostro cittadino è in balia di ciò che circola nella infosfera, dove ascolta le voci (variegate) delle istituzioni, della comunità scientifica, dei media tradizionali, dei social. In un marasma di notizie, più o meno accurate, tra le quali è difficile districarsi.

Quando il rischio si fa concreto, diventa emergenza. Come in questi ultimi giorni, quando il numero delle infezioni e dei morti da Covid-19 – pur limitatissimo – ha trasformato qualcosa di lontano in un fatto tangibile e vicino. Ecco che allora la paura cresce, spingendo verso un riordino delle priorità. Fino al punto – davvero impensabile fino a qualche giorno fa – di fermare tutto il Nord Italia.

Decisione giusta o eccessiva? La discussione è aperta.

Ma al di là di come la si pensi, sorge la domanda: non è che in assenza dell’urgenza normalmente siamo portati a sottovalutare altri fattori di rischio, magari anche più pericolosi (inquinamento delle nostre città, fumo, incidenti stradali, o più banalmente la tradizionale influenza)? Comunque sia, quando si fa emergenza, il rischio porta alla ribalta il grande rimosso della nostra società: la nostra fragilità di mortali. Da sempre la morte è qualcosa che fa paura e terrorizza. Ma quanto più viene rimossa, tanto più è probabile che il suo ritorno scateni reazioni incontrollate. Che in taluni casi possono arrivare fino alla violenza.

Il riscoprirsi vulnerabili è però anche una occasione per riscoprire quello che rischiamo sempre di dimenticare. Siamo tutti legati gli uni agli altri. E la solidarietà non è una sovrastruttura ideologica, ma il fondamento della stessa vita sociale. Lo abbiamo potuto constatare con drammatica evidenza in questi giorni: il contagio si diffonde da persona a persona. Attraverso un bacio, una stretta di mano, un abbraccio. O semplicemente condividendo una sala d’attesa o il sedile di un treno. Siamo tutti legati, e lo siamo sempre di più. Con catene di relazioni e di scambi che dalla Cina, in poche settimane, sono arrivate fino a noi. Di fronte all’epidemia si devono isolare gli infetti e organizzare la quarantena. Ma è evidente che si tratta di situazioni innaturali. L’uomo non è fatto per vivere separato, ma per stare in relazione. Con gli altri e con l’ambiente. Altrimenti ha la sensazione di essere imprigionato. L’idea di separarci, di distaccarsi dal resto del mondo, di rinserrarci in un bunker per assicurarci da tutti i rischi è una fantasia paranoica. La soluzione sta piuttosto nel far crescere la responsabilità di tutti rispetto a ciò che impercettibilmente ma essenzialmente ci unisce. La soluzione, cioè, sta nel riconoscere la costituiva solidarietà che ci lega gli uni agli altri.

Di fronte a ciò che ci minaccia scopriamo che siamo legati anche attraverso le istituzioni, che altro non sono che un prodotto della nostra socialità. È perché esistono gli ospedali, i medici, gli infermieri, i ricercatori, le forze dell’ordine che possiamo sperare di combattere il virus. E, più in generale, di affrontare i rischi della nostra vita. Infine, la solidarietà si esprime nella empatia che sorge spontanea quando vediamo un altro essere umano in difficoltà. È grazie a questa facoltà che gli uomini non abbandonano i deboli e i malati – come avviene invece per le altre specie animali – ma se ne prendono cura. Qualche volta fino al punto di correre rischi personali. E di morire con e per loro. Nella società del rischio ricordarsi che siamo solidali in quanto mortali è il presupposto per poter affrontare sensatamente – e umanamente – le emergenze che sono ormai diventate così ricorrenti da costituire una nuova normalità. Rischi che direttamente derivano dalla complessità della nostra vita sociale (come nel caso del terrorismo o del riscaldamento globale) o che, pur avendo origine naturale, vengono moltiplicati e diffusi su scala globale per via di interdipendenze sempre più strette.

Al di là delle polemiche e di qualche isolato episodio stonato, in questi giorni questa solidarietà profonda si è manifestata nelle nostre città e ha consentito di mettere in campo tutti gli strumenti tecnici, tutte le risorse istituzionali e organizzative ma anche tutto il senso di umanità di cui siamo portatori. Facciamone tesoro. Perché è su questa ricchezza che dovremo costruire il nostro futuro comune.