Opinioni

Il direttore risponde. «Noi, che non ascoltiamo più i pianti» Lei lo fa e agisce. Tutti lo possiamo

Marco Tarquinio lunedì 29 settembre 2014
​Gentile direttore,
nelle ultime settimane eventi tragici hanno coinvolto minori e donne nella nostra terra bergamasca. Incredulità, sgomento e dolore sono stati i nostri sentimenti. Inutile chiedersi il “perché” o cercare cause del mal du vivre, che può attraversare anche il cuore di adolescenti o giovani donne. C’è in tutto quello che è accaduto la sofferenza e la gioia, il dolore e la felicità, la serenità e l’angoscia nella vita di noi esseri umani. In forme e tempi diversi, tutti provano questi sentimenti o vivono situazioni drammatiche o felici. Dobbiamo convivere con fatiche e gioie, dolori e fugaci serenità. Ma una cosa non riesco ad accettare: sembra che non possiamo più piangere. Non abbiamo tempi, spazi, persone che restino accanto al dolore, alla sofferenza, alle fatiche, alle lacrime.
 
Il dolore è come rimosso, confinato, nascosto. Dobbiamo stare bene sempre, con i famigliari, gli amici, i preti, e persino con i dottori. Dico questo perché sono medico pediatra. Talvolta basta un “Signora, la vedo un po’ stanca” per far riempire di lacrime gli occhi di una mamma, per ascoltare storie di dolore, celate per pudore o timore. Siamo diventati frettolosi anche noi medici, spesso burocrati o tecnocrati, perdendo d’umanità. Succede poi che le chiese siano talvolta chiuse di giorno, sempre di sera, e non accolgono le fatiche della giornata dei lavoratori o dei giovani. I preti con i quali sedersi accanto, raccontando i propri dolori sono rari. I medici – e mi ci metto nel gruppo – che abbiano tempo e pazienza per ascoltare le paure, i dolori sono spesso stanchi e demotivati.
 
Rari pure gli amici con i quali aprire il cuore per mostrarsi fragili e vulnerabili. Risicato lo spazio d’ascolto dei nonni depositari di esperienza e saggezza. Non abbiamo più tempo e luogo per rientrare in noi stessi e ricercare la Verità, come suggeriva S. Agostino. Nel discorso al sacrario di Redipuglia il Papa ha terminato dicendo: «Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere e questa è l’ora del pianto». Qualche anno fa, la poetessa Alda Merini, riflettendo sui problemi dell’Italia scrisse: «In Italia si canta, ma non si vedono le lacrime degli italiani: si canta – forse – per stordirsi. È così importante invece, non dimenticare il pianto sotterraneo della gente». E per noi, che vorremmo essere cristiani, il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer scrisse una poesia/preghiera “Cristiani e Pagani”, veramente illuminante. In pochi versi descrisse chi sono i veri cristiani: coloro che stanno vicino a Dio nella sua sofferenza, che tradotto per noi uomini del terzo millennio, forse vuol dire, stare accanto alla sofferenza di coloro che velano l’immagine di Cristo, come ci insegna Papa Francesco.
Mi scusi Direttore per il lungo scritto, ma servono parole per dirle e dirci che ognuno di noi può stare accanto alla sofferenza, in modi e tempi specifici per ciascuno. Deve stare accanto al dolore per non perdere di umanità. Stare accanto alle malattie per aiutare chi soffre nel corpo e nell’anima. Stare accanto e lasciare spazio al pianto. Perché il dolore per essere espresso e consolato deve trovare spazio e tempi in questa società frettolosa e superficiale. Non debba più succedere che accanto a noi, giovani, donne o anziani, cadano nel buco nero della depressione, nel grigiore dell’isolamento o nella cupa tristezza della solitudine, perché nessuno li ha accolti con il loro pianto. Ascoltando i dolori, siamo concretamente umani e forse è in questo modo, che diventiamo semplicemente cristiani.
Elisabetta Musitelli, Zogno (Bg)
Mi piace leggere le sue lettere, gentile e cara dottoressa. E mi piace ascoltarla. Non sempre vale la pena di ascoltare. Qualche volta – lo ammetto – davanti a strepiti inutilmente aggressivi o addirittura sconclusionati ho imparato a far finta di non sentire o, meglio, ho capito che è utile tapparsi le orecchie, ma non con le mani: con altre parole, con vite e ragioni che invece meritano di essere ascoltate, e persino con grida che possono far male, ma vengono dall’anima o da una fede o da una sofferenza vere. È così: ad ascoltare si impara poco a poco, e non si finisce mai, cara dottoressa Musitelli. E quando c’è da farlo, lei dice proprio giusto, bisogna avere il coraggio di ascoltare anche il suono e la profondità umana più difficile di tutte: il pianto. È l’ascolto che anche a me è sempre costato di più, perché fa sentire impotenti. Per questo la semplice e inattesa frase con cui papa Francesco ha concluso la sua meditazione sul Vangelo nell’immenso cimitero di guerra di Redipuglia mi ha fulminato: in certi momenti, davanti ai grandi misfatti come alle più piccole e lancinanti sofferenze, per trovare la forza di combattere con tutta l’indispensabile gioia di uomini e di cristiani le buone “impossibili” battaglie che quei dolori e quelle attese ci indicano, non bisogna aver paura del pianto e bisogna sapersi unire al pianto di Dio, del nostro Dio crocifisso. E ascoltarlo. È un pensiero che lei, cara amica, cala bene nella nostra ordinaria quotidianità. È un pensiero che non mi abbandona in questi mesi di straordinaria e feroce persecuzione per i nostri fratelli di fede in Asia e in Africa, ma soprattutto in Siria e in Iraq. L’ascolto, per chi crede, è l’inizio e la speranza di ogni preghiera. Per tutti è l’inizio di ogni autentica relazione e di ogni giusta azione. Lei lo fa, e tutti lo possiamo fare. Grazie per averci aiutato a ricordarlo in questa domenica di settembre.