Opinioni

Il progetto gelmini e le risorse finanziarie. No alle classi ghetto Sfida ardua, ma vitale

Lucia Bellaspiga domenica 10 gennaio 2010
Un tetto massimo di alunni stranieri per classe, pari al 30 per cento del totale: è quanto prescrive il ministro Gelmini a partire dal prossimo anno scolastico. Poco? Tanto? Pensiamoci in concreto: significa che, in un’aula di quindici ragazzi, cinque non parleranno italiano, ma cinese, o pachistano, o ucraino. O più probabilmente tutte queste lingue insieme. Che in una classe di venticinque, otto saranno 'alunni con cittadinanza non italiana'. Fino ad oggi non era previsto un limite e sempre più spesso succedeva che il numero di bambini italiani e stranieri fosse più o meno equivalente, o addirittura che qualche volta i valori si ribaltassero, con una minoranza di allievi autoctoni in una schiacciante maggioranza di immigrati. Una piccola babele che non giova a nessuno e danneggia tutti. Il tetto previsto dal Ministero dell’Istruzione è dunque un passo avanti ormai irrinunciabile, anche se va detto che un terzo di stranieri resta una percentuale molto alta, capace di mettere in serie difficoltà anche l’insegnante più volenteroso, costretto a funambolismi cui nessuna università lo ha mai preparato. D’altra parte la soluzione al problema non è certo quella, a volte ancora sbandierata, di classi-ghetto simili a riserve indiane per soli immigrati, luoghi in cui tutto si impara tranne la cultura italiana e tutto avviene meno che l’integrazione. Come ha ricordato lo stesso ministro, «i bambini stranieri, soggetti come tutti all’obbligo dell’istruzione, devono essere inseriti nelle classi con i bambini italiani per potersi integrare al meglio». Il vero nodo è stabilire che cosa si intende per 'stranieri': basta fare un giro nelle scuole elementari di oggi per imbattersi nella prima della classe con grembiulino bianco e occhi a mandorla, la manina alzata e la risposta pronta in perfetto accento milanese o napoletano a dispetto dell’etnia. Ormai più di un terzo dei figli di immigrati è nato qui, ha giocato con i nostri bambini, parla un italiano perfetto e magari a scuola dà il meglio di sé più di qualche compagno madrelingua, che invece arranca e ha meno talenti. Sono scene frequenti, che scaldano il cuore e fanno pensare. Chi è straniero, allora? Chi non capisce l’italiano, risponde il ministro Gelmini, e per ciò è tagliato fuori, condannato all’ignoranza, privato di un futuro, in una parola discriminato. Solo questi casi rientrano in quel 30 per cento che ha bisogno di aiuti straordinari, tutti gli altri – qualunque sia l’origine dei loro padri – sono già 'dei nostri'. Nessun razzismo nelle parole del ministro, insomma, nonostante certe accuse che le sono state lanciate. Semmai la preoccupazione è un’altra, molto realistica, basata sui fatti: il ministero parla di «classi di inserimento» in cui ai nuovi immigrati si insegnerà l’italiano. Parla di «corsi di potenziamento tenuti, dove possibile, dagli insegnanti della scuola stessa». E siccome tutto ha un costo e le nozze non si fanno con i fichi secchi, parla persino di «apposite risorse finanziarie per gli interventi di sostegno». Ma in un pianeta scuola che di anno in anno taglia, rappezza, ricicla, tira da una parte e dall’altra una coperta sempre più risicata, da dove pioveranno questi fondi? La sfida è vitale per tutti e la posta in gioco altissima, guai se si perdesse questo treno: che piaccia o no, anche questi bambini sono il nostro domani, anche dalla qualità della loro istruzione e dalla valorizzazione dei loro talenti passa il futuro della nostra civiltà e la sopravvivenza dei nostri valori. Accoglierli significa anche passar loro il testimone delle nostre radici e il patrimonio culturale che per secoli ci ha formati. Per un professore non c’è soddisfazione più grande del ragazzo cinese che studia Augusto e commenta Dante. Senza per questo rinnegare la propria cultura. Ma anche senza costringere i nostri figli a rinunciare alla loro.