Opinioni

A Londra s'inizia a cambiar strada. Niente risultati, niente soldi: fallimento ibridi

Assuntina Morresi venerdì 16 gennaio 2009
Niente soldi per la ricerca sugli em­brioni ibridi uomo-animale: il cla­moroso annuncio è apparso sulla prima pagina del quotidiano inglese Indepen­dent. Modulato a metà fra il grido di do­lore e il disperato, patetico, tentativo di fa­re appello all’opinione pubblica. Nessu­no dei tre gruppi di ricerca inglesi auto­rizzati più di un anno fa è riuscito a tro­vare i finanziamenti necessari per realiz­zare il discusso esperimento che – è bene ricordarlo – consiste in una clonazione realizzata fondendo un ovocita di mucca, coniglio o maiale con una cellula soma­tica umana, e che avrebbe dovuto porta­re alla creazione di un embrione ibrido con il 99.9% del patrimonio genetico di o­rigine umana e lo 0.1% di provenienza a­nimale. L’obiettivo era creare cellule sta­minali embrionali, ovviamente «per scon­figgere malattie incurabili», utilizzando o­vociti animali perché quelli delle donne scarseggiano. Secondo l’Indipendent, le ricerche in cor­so sarebbero talmente avanzate che in poche settimane gli esperimenti potreb­bero essere completati a costi che sem­brano irrisori: 80-90 mila sterline per com­prare le attrezzature necessarie, stando a quel dichiara Stephen Minger, il respon­sabile di uno dei tre gruppi di ricerca. Pec­cato che quei soldi nessuno voglia met­terceli. E dire che in Gran Bretagna il denaro per la ricerca non manca: il Medical Resear­ch Council ha impegnato 25,5 milioni di sterline per studi sulle cellule staminali, aumentando il fondo di due milioni ri­spetto all’anno scorso. Ma soprattutto ha preferito far lievitare dal 46% al 61,3% la quota destinata alle staminali adulte. Gli stessi responsabili dei finanziamenti l’hanno ammesso: meglio investire sulla tecnica – efficace e promettente – delle staminali 'etiche', le cellule pluripotenti indotte scoperte poco più di un anno fa dal giapponese Shinya Yamanaka. Gli i­bridi? Non interessano. Che quella degli embrioni misti uomo-a­nimale fosse una ricerca vecchia e già fal­lita i lettori di Avvenire lo sanno bene a­vendolo letto più volte su queste colon­ne, alla luce della più affidabile letteratu­ra scientifica. Eppure l’Associazione radi­cale Luca Coscioni nell’ottobre 2007 invitò in Italia proprio Minger, quasi fosse il nuo­vo eroe della ricerca di frontiera. Questi tenne un’audizione per il mondo politico e un seminario alla Sapienza, presentato da illustri docenti dell’ateneo romano pronti a dichiarare pubblicamente il loro entusiasmo per gli ibridi. A confortarli si schierò la fanfara della gran parte dei me­dia italiani, beatamente indifferenti ai di­satrosi risultati di chi, negli anni prece­denti, aveva iniziato e poi abbandonato l’esperimento. Gli scienziati inglesi coinvolti nell’opera­zione, dal canto loro, hanno denunciato ostacoli di natura «etica»: i fondi per gli i­bridi non sarebbero arrivati per «ragioni morali». Ma oggi non sanno con chi pren­dersela: in Gran Bretagna i cattolici sono in minoranza, e il Vaticano non è invoca­bile come causa dei loro fallimenti. Im­barazzo doppio, visto che ci avevano spie­gato che la ricerca era stata preceduta da un ampio dibattito che aveva coinvolto l’opinione pubblica, giunta infine a so­stenere la ricerca sugli ibridi. Un esempio di democrazia ed informazione, insom­ma, tutto da imitare, specie dal nostro de­relitto e arretrato Paese. Ma almeno un obiettivo di quell’assillan­te campagna è stato raggiunto: a seguito del gran battage per quella che doveva es­sere una ricerca dai risultati miracolosi è cambiata la legge inglese sull’embriologia, che adesso autorizza ogni tipo di ibrido uomo-animale. Come per la «clonazione terapeutica» umana – mai realizzata ep­pure oggetto di furibonde campagne po­litiche e mediatiche – i cosiddetti paladi­ni della scienza hanno diffuso notizie di­storte e dati alterati per ottenere norme a maglie assai larghe e sdoganare l’idea che in nome del progresso scientifico tutto sia lecito. Così, quella che dovrebbe essere scienza diventa troppo spesso l’inutile pa­rodia di se stessa.