Opinioni

Nicaragua. Quando il potere vuole silenziare una Chiesa «scomoda»

Lucia Capuzzi venerdì 5 gennaio 2024

Nelle ultime due settimane, ogni diciotto ore un operatore pastorale è finito in cella in Nicaragua per un totale di diciannove. La caccia del “Natale nero”, come l’hanno soprannominato, è cominciata il 20 dicembre con il fermo del vescovo di Siuna, Isidoro del Carmen Mora, catturato insieme ai due seminaristi Alester Sáenz y Tony Palacios, per la “colpa” di avere menzionato nell’omelia del giorno precedente il confratello Rolando Álvarez che sconta una condanna a 26 anni per “tradimento della patria” nel carcere di La Modelo di Managua. Nei giorni successivi è toccato ai sacerdoti Pablo Villafranca, Carlos Avilés, Héctor Treminio, Fernando Calero, Marcos Díaz Prado di León, Ismael Serrano, Silvio Fonseca, Miguel Mántica, Mykel Monterrey, Jader Hernández, Ervin López, Jaime Ramos, Gerardo Rodríguez, Raúl Zamora. Infine, Gustavo Sandino e Fernando Téllez. U na lista incompleta. Vari fedeli hanno denunciato la sospensione sospetta delle celebrazioni in alcune parrocchie, dove i preti risulterebbero irreperibili. Uno scenario che suscita «forte preoccupazione», ha detto papa Francesco nel primo Angelus del 2024. L’escalation è inedita per le proporzioni. Il “Natale nero”, tuttavia, si inserisce in una repressione sistematica della Chiesa da parte del presidente Daniel Ortega e della sua vice nonché moglie Rosario Murillo. Un paradosso in una nazione dove almeno il 45 per cento della popolazione si riconosce nella religione cattolica e le sue istituzioni. E la stessa leadership “duale” che stringe la morsa paradossalmente si professa cattolica praticante. Questo non le ha impedito di sferrare, negli ultimi tre anni, un attacco senza precedenti verso sacerdoti, credenti, vescovi, ordini religiosi e realtà ecclesiali di vario tipo. La ragione della contraddizione risiede nella natura della campagna anticlericale. Ad alimentarla non è la contrarietà ai contenuti religiosi di per sé. Bensì il rifiuto nei confronti delle loro ricadute nel contesto pubblico. La Chiesa viene aggredita in quanto ultimo spazio di autonomia nell’asfittica società nicaraguense. Una libertà – di parola e di azione nei confronti delle vittime dell’oppressione – a cui non può rinunciare per compiacere il potere. Non per ostinazione o per partigianeria. Si tratta della conseguenza della fedeltà al Vangelo che impone ai cattolici di perseguire la giustizia del Regno. In questo, il martirio della Chiesa di Managua ricorda quello della sorella salvadoregna negli anni Settanta e Ottanta, quando decine di preti, religiosi e religiose furono massacrati nonché centinaia di catechisti e laici impegnati. I l caso più noto è senza dubbio quello di Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso da un proiettile mentre celebrava la Messa il 24 marzo 1980. A fare fuoco un sicario al soldo della dittatura filostatunitense, anti-comunista e dichiaratamente cattolica che governava il Paese. A lungo, la camicia di forza della Guerra fredda, aveva spinto tanti, anche all’interno della Chiesa, a incasellare “Monseñor”, come lo chiamano i salvadoregni, nel fronte politico opposto. Addirittura fu accusato di simpatie marxiste. Ci è voluto un lungo processo di discernimento per comprendere la matrice profondamente evangelica della denuncia di Romero. A sciogliere il dubbio il riconoscimento del suo martirio con il decreto firmato da papa Francesco il 3 febbraio 2015. Proclamato beato il 23 maggio successivo, è stato canonizzato il 14 ottobre 2018. « Il martirio di monsignor Romero è il compimento di una fede vissuta nella sua pienezza – ha spiegato il postulatore, monsignor Vincenzo Paglia -. Quella fede che emerge con forza nei testi del Concilio Vaticano II. In questo senso, possiamo dire che Romero è il primo martire del Concilio, il primo testimone di una Chiesa che si mescola con la storia del popolo con il quale vivere la speranza del Regno. Una speranza di giustizia, di amore, di pace». Uno spirito analogo muove la Chiesa nicaraguense. Il punto di svolta, in questo caso, è il 18 aprile 2018. Quel giorno, la protesta causata dalla riforma del sistema pensionistico si è trasformata in una rivolta disarmata contro il governo. Per oltre due mesi, migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza con lo scopo di chiedere le dimissioni dell’uomo che, nel 1979, era stato tra i protagonisti della caduta della brutale dittatura del clan Somoza. A sconfiggere il regime era s t at o i l sa n d i n i s m o, mov i m e nt o na z i o na l i s t a e socialisteggiante che, nel decennio successivo – segnato dalla guerriglia anti-sandinista dei contrás, finanziata dagli Usa –, ha guidato lo Stato sotto la presidenza Ortega fino alla sconfitta del 1990. I l leader ha impiegato sedici anni per tornare al vertice. Quando, alla fine, c’è riuscito, grazie a un’anomala alleanza con l’ex capo dei contrás, Jaime Moreles Carrazo, ha fatto di tutto per non rischiare di perdere il potere una seconda volta. Nel 2013, così, ha cambiato la Costituzione in modo da garantirsi la possibilità di rielezione all’infinito. Allo stesso tempo, ha cooptato le istituzioni, i settori imprenditoriali e le fasce più povere, costruendo un sistema insieme ultraliberista e populista, caratterizzato dall’erogazione di sussidi clientelari e la concessione di mano libera totale alle aziende e a importanti sconti fiscali. A sostenere il tutto è stato a lungo il petrolio dell’alleato venezuelano. Con la crisi in atto a Caracas, l’orteguismo ha iniziato a scricchiolare. La “rivolta di aprile” ne è stata la conseguenza. Al rischio di essere defenestrati, Ortega e Murillo hanno risposto con il pugno di ferro. Nel luglio 2018, polizia e gruppi paramilitari – le cosiddette “turbas” – hanno dato vita “all’Operación limpieza”, la feroce repressione dei manifestanti. In 325 sono stati uccisi mentre diverse centinaia di persone sono state arrestate. Nel mirino sono finite anche figure storiche del sandinismo, come Carlos Chamorro, lo scrittore pluripremiato Sergio Ramírez, la poetessa Gioconda Belli, l’ex guerrigliera Dora Téllez. Da quel momento, il dissenso è stato spazzato via: organizzazioni sociali e civili, Ong e media indipendenti sono stati chiusi, i sette candidati che hanno “osato” presentarsi contro Ortega al voto del 7 novembre 2021 sono finiti subito in cella. La Chiesa, sola realtà indipendente superstite, ha cercato di proteggere i perseguitati in nome del Vangelo e di costruire canali di dialogo in mezzo al conflitto. Una scelta per cui il regime l’ha iscritta nella lista dei nemici. E ha cominciato a colpirla con sistematica brutalità. Dall’aprile 2018, secondo l’ultimo studio della ricercatrice Martha Molina, sono stati registrati 740 attacchi: da profanazioni a insulti ad aggressioni, sequestri, incarcerazioni arbitrarie. Dopo un esordio in punta di piedi, la repressione s’è fatta plateale. L’escalation è iniziata con l’espulsione del nunzio, Waldemar Stanislaw Sommertag, il 12 marzo 2022. L’anno scorso, ci sono stati 171 episodi violenti. Cifra superata nel 2023 in cui sono stati 275. Finora il duo Ortega e Murillo ha privato della nazionalità con l’accusa di «tradimento verso la patria » 14 presbiteri, un diacono, due seminaristi e due vescovi, Silvio Báez e Rolando Álvarez, quest’ultimo tuttora in prigione. Ottantatré religiose di differenti ordini e congregazioni e 70 sacerdoti sono stati mandati in esilio. Gli ultimi dodici, detenuti con varie accuse, sono stati espulsi il 19 ottobre e mandati in Vaticano, che ha accettato di accoglierli. I conti della Chiesa sono stati bloccati, quattro università e due istituti superiori sono stati confiscati, 15 emittenti e 11 progetti sociali sono stati chiusi. Lo scorso 18 maggio, Managua ha “congelato” le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Uno degli atti più clamorosi prima del “Natale nero” è stata, ad agosto, la revoca della personalità giuridica alla Compagnia di Gesù e l’esproprio della Università dei gesuiti José Simeón Cañas ( Uca). La succursale nicaraguense dell’ateneo salvadoregno dove, il 16 novembre 1989, si è consumato uno dei capitoli più cruenti della guerra civile: il massacro di sei gesuiti. La Uca – dicevano i militari – «era un covo di terroristi». La stessa frase pronunciata dopo da Daniel Ortega prima di sottrarla alla Compagnia. Trentaquattro anni dopo, la libertà del Vangelo continua a far paura agli autocrati latinoamericani.