Opinioni

I medici palliativisti. Nessuno muoia più da solo. Per civiltà

Assuntina Morresi mercoledì 21 ottobre 2020

«C’è sempre qualcosa da offrire, anche alla fine della vita»: inizia con la citazione di un famoso editoriale della rivista scientifica The Lancet il documento sul «Ruolo delle cure palliative durante una pandemia», a cura della Società italiana di cure palliative e della Federazione cure palliative, pubblicato lunedì. Un contributo importante alle politiche di salute pubblica in tempo di pandemia, quando la platea di pazienti vulnerabili e a rischio di morte si allarga rispetto a quella solitamente presa in carico e le condizioni sono spesso molto diverse da quelle usuali, sia per l’isolamento dei malati sia, più in generale, per il contesto emergenziale in cui gli operatori sanitari debbono lavorare. La breve descrizione della situazione italiana conferma che, pur nella nota difformità territoriale che ci caratterizza, il nostro modello di cure palliative «anche nelle settimane più critiche della pandemia, ha continuato a garantire alti livelli di qualità assistenziale nei confronti dei malati affetti da patologie avanzate assistiti al domicilio e in Hospice».

Le raccomandazioni della comunità palliativistica si basano sul modello «delle quattro S», dalle iniziali delle quattro parole in lingua inglese stuff (cose), staff (personale), space (spazi) e systems (sistemi). Si tratta di uno studio statunitense sulla organizzazione dell’assistenza in caso di incidenti di massa, aggiornato da un più recente lavoro di palliativisti canadesi, che lo ha completato con altre quattro parole: sedazione, isolamento, comunicazione ed equità.

Su questa trama le società palliativistiche italiane hanno costruito raccomandazioni concrete e articolate, suggerimenti importanti innanzitutto per chi ha responsabilità nell’organizzazione dell’assistenza sanitaria ma anche utili ai non esperti: è una narrazione del lavoro dei palliativisti nell’emergenza che stiamo attraversando.

Alla voce «staffpersonale », ad esempio, le raccomandazioni riguardo all’assistenza psicologica, sociale, spirituale e al volontariato hanno la stessa attenzione di quelle alla dotazione e formazione del personale e ai protocolli: a conferma che la presa in carico clinica non può fare a meno del fattore umano, di quell’accompagnamento prossimo e costante dei più vulnerabili che fa parte integrante della cura e ne è contributo essenziale sempre, anche e soprattutto al tempo del distanziamento sociale. Le carenze relazionali non sono meno pesanti di quelle organizzative e di sistema. Si raccomanda ai volontari di essere presenti almeno telematicamente, quando non si può esserlo fisicamente accanto ai malati, di promuovere pratiche di informazione e di sostegno alle famiglie in isolamento. Si suggerisce inoltre di individuare spazi dedicati al ricovero di malati Covid-19 « in fase di fine vita (da patologia Covid-19 o da patologie pregresse) nettamente distinte dalle aree di degenza Covid–19 free» (evidenziato nel testo, ndr). E poi che «venga consentita la possibilità di visita da parte dei membri della famiglia con l’uso dei Dpi necessari, laddove il contesto di cura lo permetta». Se l’isolamento degli infetti è ovviamente necessario per evitare il diffondersi del contagio, la solitudine nella sofferenza e ancor più nella fine della vita ha il sapore della disperazione.

Non a caso la saggezza popolare usa espressioni come “è morto solo come un cane”, per dire della inumanità del morire soli, mentre al contrario “è morto come un re”, per dire della dignità del morire, con i propri cari tutti intorno, come alla corte di un sovrano. Era stato il Comitato di Bioetica spagnolo, lo scorso aprile, ad affrontare l’argomento in un parere dedicato, chiedendo di «studiare il modo per permettere l’accesso ad almeno un familiare, soprattutto al momento della dipartita. Siamo consapevoli che alcune Comunità autonome, così come gli ospedali e le case di riposo, hanno già approvato protocolli o linee guida in modo che la persona possa essere accompagnata alla fine della sua vita, senza mettere a rischio né gli accompagnatori né l’équipe sanitaria. […] Non c’è dubbio che fornire l’accompagnamento appropriato di una persona cara al momento della morte, così come il sostegno spirituale o religioso quando lo richiedono, è chiaramente uno sforzo giustificato e un atto superiore di umanizzazione ». Un appello che facciamo nostro. E se devono essere fatti tutti gli sforzi possibili per mettere a punto cure e vaccini, sostenere istruzione, lavoro ed economia, supportare le famiglie in affanno e le persone più vulnerabili, non può mancare quello perché nessuno muoia solo, anzi: deve essere il primo.