Opinioni

IL DIRETTORE RISPONDE. Nelle notti lombarde, per amore

Marco Tarquinio domenica 20 ottobre 2013
Gentile direttore,
dopo una cena in città tra amici, l’amico parroco della zona mi propone di accompagnarlo. «Vuoi venire un attimo a distribuire le coperte ai poveri?», domanda. Lo seguo con incertezza. Lui prende un sacco di coperte e si avvicina al sagrato della chiesa. Vedo tre persone distese nell’ombra. Sono accanto al portone della chiesa, riparate dal muretto del sagrato. Il vento autunnale in questa città del Nord è pungente.
Il prete li saluta, aiuta a sistemare gli improvvisati giacigli, dona un contributo per la colazione al bar e conclude: «Bene, ora prima di dormire, la preghiera della sera». Subito uno di loro, un omone di colore si alza, si avvicina al prete abbassando il capo. Gli altri due, coricati accanto a due fisarmoniche e alle scarpe in ordine con gli zainetti, si alzano in fretta, si inginocchiano rivolti verso l’ingresso della chiesa, abbassando lo sguardo. Inizia il Padre Nostro, poi l’Ave e il Gloria. Come papa Francesco il giorno della sua elezione. Osservo pregare questi poveri a bassa voce nelle loro lingue. Una piccola e universale Chiesa di strada che emoziona. Forse sono ortodossi, immigrati dell’Est, forse il compagno nero è animista. Ma pregano insieme.
Dopo la benedizione, il parroco traccia sulle loro fronti il segno di croce. Ci allontaniamo in silenzio. Ho un nodo di lacrime in gola. L’amico sacerdote interrompe il silenzio: «Questi poveri sono più santi di noi... pensiamo di esser ricchi, perché abbiamo una casa nella quale dormire... la verità è che siamo tutti randagi...». Il pensiero sospeso lo completo nella mente: «Randagi, se siamo senza Dio, senza Lui accanto».
Ritorno a casa pensando a una delle tante domande poste dal Papa: «Ma i poveri li toccate?» e all’amico prete che ha toccato con delicatezza quella «carne di Cristo» derelitta sulla strada. E io, distante da loro. Ripenso alle battute ironiche sulla Chiesa e sui sacerdoti, dette per provocare il sorriso sul viso stanco del giovane parroco. E la sua frase nel saluto: «Ma hai letto l’indagine su quanti senza fissa dimora ci sono in città?».
Ricordo i numeri impressionanti e il mio parlare di poveri senza vederli, senza toccarli. Nel silenzio della notte il nodo di lacrime si scioglie ripensando a coloro che toccano i poveri e ai tanti che si riempiono solo la bocca di loro. Forse il giovane sacerdote ha deciso di seguire papa Francesco, perché sente che segue Gesù Cristo. Forse i tanti come me dovrebbero aprire meglio gli occhi e il cuore, perché questi senzatetto, profughi, immigrati o poveri senza lavoro, ricevano affetto e aiuto come l’antica parabola del samaritano ha mostrato. Perché ogni uomo possa vivere da uomo. Perché quella carne sofferta sia curata come la carne del Cristo.
Lettera firmata dalla terra lombarda
Il lettore che ha scritto in modo così bello di questa testimonianza di vita e di apostolato cristiani mi ha chiesto di non firmare la sua lettera. Mi è dispiaciuto, ma ha saputo darmi motivi (che tengo per me) della sua richiesta. E mi ha convinto. Dico solo che quei motivi non riguardano né l’amico lettore né il suo parroco, ma toccano comunque la vita di una nostra comunità cristiana, e sono la parte meno luminosa di una così coinvolgente storia di fede, di speranza e di carità. Una vicenda semplice ed esemplare, che non è unica, né isolata, in terra di Lombardia e altrove.
Accade ogni giorno e ogni notte, anche in questa nostra Italia, anzi in questa nostra Italia assai più che in altre parti d’Europa, che uomini e donne credenti – sacerdoti, religiosi, laici – si chinino sugli ultimi, non limitandosi a guardarli ma vedendoli, sapendo parlare con loro e continuando a imparare ad ascoltarli. Accade che preghino con loro e per loro, rispettandoli e andando al cuore del Vangelo di Gesù Cristo.
Diamo spazio, da anni, sulle nostre pagine a queste vicende buone, contagiose di bene. Infatti, come dice papa Francesco – con immagine che ha restituito consapevolezza a tanti di noi, cristiani acquietati – quegli uomini e quelle donne, che portano l’«odore» inconfondibile dell’insuccesso secondo il mondo e di una marginalità ferita, sono «carne di Cristo». E la carne di Cristo è la Chiesa che noi confessiamo.
Qualcuno considera tutto questo – il «farsi prossimo», abbracciando la croce – la manifestazione di un cattolicesimo «sentimentale» e «buonista», lontano e persino traditore dell’ordinato vivere sociale e dei grandi princìpi che stanno alla base della visione cristiana dell’uomo e del mondo. Come se la carità e la solidarietà cristiane non fossero, come sono, le nostre disarmate armi al servizio della vita, di ogni vita: nascente, piccola, migrante, povera, infragilita, morente... In nome di Dio, sempre. Dalla parte degli uomini e delle donne, comunque. Assieme a chi, con buona volontà, almeno questa irrinunciabile scelta di umanità condivide con noi.
Certo, i buoni sentimenti, la bontà, per noi non sono parolacce. Ma ipotizzare un simile iato, prima ancora che affermarlo, è un serio errore, risultato di un imbarazzante vuoto di comprensione. Che è purtroppo possibile, perché – come ogni incontro, come ogni 'relazione' forte – il cristianesimo se non è vissuto con fiducia e gioia non potrà mai essere abbastanza pensato.
Lettere così belle, vite da prete così integralmente donate, ci fanno bene, cari amici. Come si diceva un tempo, ci edificano. Cioè ci costruiscono. E possono farlo anche perché sono potentemente abitate dalla preghiera. La preghiera alla quale papa Francesco ci chiama con grande intensità e che il suo predecessore, papa Benedetto, ha scelto come ultimo servizio da rendere alla Chiesa, «carne di Cristo».