Opinioni

Per una nuova grammatica senza confini. Papa Francesco, la pace di Assisi e la guerra globale: è il tempo del «noi»

Marco Impagliazzo mercoledì 5 ottobre 2016

Il nostro tempo conosce un’evidente accelerazione della storia: il disordine globale, il terrorismo, la tumultuosa crescita dell’Asia, l’interconnessione crescente delle informazioni e dei trasporti, la crescita delle migrazioni, la sfida climatica... Un mondo nuovo si profila all’orizzonte, ma non abbiamo ancora imparato a collocarci in esso, a comprenderlo pienamente e a padroneggiarlo. Quest’avventura che ci è toccata in sorte necessita di una nuova grammatica, di una bussola che ci orienti.

Bisogna riflettere e riflettere ancora sul discorso pronunciato qualche giorno fa ad Assisi, durante l’incontro internazionale per i 30 anni dello "spirito di Assisi", da Zygmunt Bauman: «La storia dell’umanità può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è la progressiva espansione del pronome "noi"». Un "noi" – continuava il grande sociologo – che si è contrapposto per secoli agli "altri", a un "loro". Ma, concludeva Bauman, «ci troviamo oggi di fronte alla necessità ineludibile di una nuova tappa di questa espansione, di un salto verso l’abolizione del pronome "loro". Viviamo in una realtà cosmopolita, che cerchiamo di gestire con mezzi sviluppati da antenati che si muovevano su territori limitati, e questa è una trappola! Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro. C’è bisogno di promuovere una cultura del dialogo, di una vera e propria rivoluzione culturale».

C’è, è vero, una rivoluzione culturale da affrontare perché il "noi" si è espanso in modo considerevole. Il "noi" di mio nonno era la Sardegna, il mio l’Europa. Ma quello dei nostri nipoti sarà sempre più il mondo.Ciò rappresenta una sfida per tutti, ma per i credenti assume un valore particolare. Per i cristiani significa credere di più nella grande intuizione delle origini, quella prima globalizzazione della storia espressa in modo chiaro e sorprendente dall’apostolo Paolo, figlio di due culture e capace già allora di andare oltre entrambe: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).

Significa, in altre parole, rendersi conto che non c’è alternativa. Perché è vero quanto dice Bauman, vale a dire che non si può più tornare indietro: i popoli, le culture, le religioni, i continenti o andranno alla deriva, con le terribili conseguenze che possiamo immaginare, o dovranno convergere in un’unità che non è superamento delle differenze, ma consapevolezza di quanto siamo tutti interdipendenti gli uni dagli altri.

L’alternativa al "noi" non è l’indipendenza, ma la dipendenza dai "demoni" della divisione e dello scontro, il moltiplicarsi incontrollato dei "loro" che può solo portare a una pericolosa crescita degli estremismi e delle rivalità. Lo ha scritto ieri Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, sul "Corriere della Sera" «gli estremisti ci obbligano a decidere da quale parte stare usando la dicotomia "noi contro loro"». Dove sceglieremo di vivere? In città abitate dal "demone" dei "loro", in conflittualità permanente, o in città la cui cifra è il "noi", pur con tutti i piccoli e meno piccoli problemi che nascono dalla convivenza? Per fare un esempio concreto: avremmo preferito vivere nella Sarajevo di alcuni decenni fa o ci va bene quella di oggi?

L’anno scorso papa Francesco, proprio a Sarajevo, incontrando i giovani diceva: «Voi siete la prima generazione dopo la guerra. Fiori di primavera che vogliono andare avanti e non tornare a quel che ci rende nemici gli uni gli altri. Voi non volete essere nemici l’uno dell’altro. Volete camminare insieme, come ha detto Nadežda. E questo è grande! Non siamo "loro e io", siamo "noi". Vogliamo essere un "noi", per non distruggere la patria, per non distruggere il Paese. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico… ma siamo "noi". Questo è fare la pace! Una vocazione grande: mai costruire muri, soltanto ponti».

Sì, la grammatica di questo tempo e quella della pace ha bisogno di un "noi", di ognuno di noi. Solo così saremo più sicuri e più felici, non costruendo nuovi muri di mattoni, di reti o di diffidenza. E nemmeno – secondo la nota metafora di Hegel – prendendo il volo all’imbrunire, come la civetta di Minerva, cioè quando ormai è troppo tardi per comprendere il nostro tempo.