Opinioni

Molte le colpe dell'ex Rais, ma il processo serve ai nuovi padroni. Mubarak, una vittima sacrificale per evitare che l'Egitto esploda

Luigi Geninazzi giovedì 4 agosto 2011
La resa dei conti con le dittature finite nella polvere non è mai un’operazione semplice e lineare. Il processo a Mubarak, iniziato ieri in Egitto, vorrebbe essere il coronamento della rivoluzione di piazza Tahrir, la rivincita dello Stato di diritto su un regime ingiusto e violento. Al Cairo è andato in scena l’incredibile spettacolo del Faraone in gabbia, accolto da grida di giubilo ma anche da episodi di contestazione. Per la prima volta nella storia del mondo arabo, un dittatore compare in giudizio per rispondere di crimini contro l’umanità. Non un dittatore qualsiasi, ma il potente ex-raìs che per trent’anni ha governato il Paese-chiave del Medio Oriente. Non più l’uomo dal volto goffamente ringiovanito e dai capelli incatramati che si affacciò in tv il 10 febbraio per annunciare le sue parziali dimissioni, inutile e patetico escamotage per rimanere aggrappato al potere. Fu la sua ultima apparizione pubblica prima di essere spazzato via dall’onda in piena della protesta popolare.Ieri è tornato sotto i riflettori della tv di Stato, che ha rilanciato a tutto il mondo l’immagine di un vecchio malato, disteso su una barella, il volto terreo con le occhiaie incavate, il fisico indebolito coperto da un lenzuolo. Giusto processare Mubarak. Ma suscita pena, anzi disgusto, l’accanimento mediatico su un anziano in fase terminale, trascinato in aula dietro le sbarre, attorniato dai figli con le tute bianche da carcerati, dato in pasto all’opinione pubblica come vittima sacrificale. E che dire dei suoi ex amici che oggi vestono i panni d’accusatori? Come Omar Suleiman, l’ex vice-presidente pronto a giurare che «Mubarak ha la responsabilità di ogni proiettile sparato per uccidere i dimostranti». O come il generale Hussein Tantawi, fedelissimo ministro della Difesa sempre a fianco del raìs e oggi a capo della giunta militare che governa il Paese. E perché non è stato avviato alcun procedimento nei confronti dei poliziotti autori delle violenze contro i giovani di piazza Tahrir (850 morti nei 18 giorni della rivolta)?Più che rispondere a un sincero desiderio di giustizia, sembra che la plateale messinscena del processo a Mubarak sia dettata dalla volontà dei militari di Tantawi e del governo provvisorio di Sharaf di mettere un freno alle proteste che continuano a dilagare in tutto il Paese per "la rivoluzione bloccata" e la mancanza di veri cambiamenti politici e sociali. Mettere alla sbarra il vecchio dittatore assomiglia così a un gesto propiziatorio d’unità per superare, o almeno mascherare, i profondi dissidi che stanno emergendo non solo tra il potere dei militari e la società egiziana, ma anche all’interno del movimento rivoluzionario. Il contrasto tra gli islamisti, capeggiati dai Fratelli musulmani, e i giovani che si richiamano ai principi di libertà e democrazia occidentale è venuto alla luce in modo prepotente venerdì scorso, proprio durante l’ennesima manifestazione a piazza Tahrir, monopolizzata dagli integralisti islamici che si preparano a vincere le prossime elezioni.Non molto dissimile la situazione in Tunisia dov’è nata la "rivoluzione dei gelsomini". Dopo la stagione entusiasmante della primavera araba stiamo vivendo una deprimente estate, segnata dalla guerra inconcludente in Libia e dalla repressione infinita in Siria. Qualcuno ha detto che il processo a Mubarak può costituire un avvertimento ai dittatori arabi ancora al potere. Ma può essere letto al contrario: pur di non andare incontro alla stessa sorte del Faraone d’Egitto, a Tripoli e a Damasco i tiranni resisteranno fino all’ultima goccia di sangue.