Opinioni

Una piccola storia familiare. Mostri da Talk show e favole come rimedio

Daniele Mencarelli giovedì 11 luglio 2019

I miei figli, di otto e dodici anni, l’altra notte mi hanno chiamato per alcune immagini che avevano visto alla televisione e che non riuscivano a togliersi dagli occhi, tanto impressionanti al punto da impedirgli di dormire. Mi hanno chiesto una favola, cogliendomi impreparato, era da tanto che non lo facevano.

Così, su due piedi, mi sono affidato all’immaginazione e ho iniziato a raccontargli di un Paese come il nostro, con lo stesso nome e medesima forma di stivale. In questa altra Italia, di fantasia, uomini di buona volontà davanti alla crisi economica e sociale che da anni attanagliava il Paese decisero che era giunto il momento di cambiare strada. Si sedettero intorno a un tavolo, lasciarono fuori dalla porta telefonini e televisioni, rimasero in silenzio, guardandosi a lungo negli occhi. Per prima cosa, anche se gli sarebbe costata fatica, decisero di tornare ad affidarsi all’unico vero primato concesso al genere umano.

Quello della realtà. È la realtà la maestra, per conoscere veramente le cose non possiamo farcele raccontare, ma dobbiamo viverle, toccarle, a volte anche subirle. È attraverso l’esercizio della realtà che conosciamo noi e il mondo, tutto il resto è presunzione. Ci volle tempo e fatica, e tanto lavoro, su loro stessi in primis, ma con la realtà di fronte agli occhi, poco a poco, tornarono a guardare veramente, e a capire. Questi uomini di buona volontà si accorsero di quanta potenza possedevano le cose, e ne rimasero strabiliati. Potenza che loro avevano schiacciato al punto da dimenticarne l’esistenza.

Più di tutto, furono impressionati dal potere della parola. Perché le parole sono pietre, che loro, nella loro vecchia vita, lanciavano senza decoro e senza consapevolezza, per il solo gusto di colpire e offendere. Di fronte a certe parole piansero, perché videro la luce del loro significato. Parole come Carità, Accoglienza, Fratellanza, gli esplosero nel cuore. Queste parole si trasformarono in fatti, diventarono energia nelle braccia, poi opere che ne testimoniassero tutta la loro bellezza universale.

Questi uomini di buona volontà, nati a nuova vita, iniziarono a concepire il lavoro come la più alta definizione di se stessi. È quello che facciamo che permette gli altri di conoscerci, e ricordarci, e stimarci quando ce lo meritiamo, quindi dev’essere fatto come meglio possono le nostre mani e la nostra mente, e la nostra passione. Ebbero anche un’altra rivelazione: capirono che il lavoro più importante per il benessere proprio e altrui è uno in particolare. Quello che loro più di tutti avevano massacrato. La politica. Che dev’essere svolta donando tutto di se stessi, al pari di una missione, perché senza polis non esiste mondo, e perché governare è un arte, come scrivere poesie, o erigere ponti fra terre lontane.

Questi nuovi politici superarono tutti i vetusti concetti del Novecento, in primis destra e sinistra, andarono anche oltre il dogma della dialettica, per cui ogni cosa può essere discussa all’infinito, e contraddetta a secondo del proprio interesse, e tutto, anche i numeri, diventare altro da quello che sono. Qualsiasi forma di estremismo, va da sé, fu semplicemente annullata dall’esercizio della ragione. Anche gli interessi personali, di schieramento, di gruppi di potere, cessarono di esistere, al loro posto si mise il bene comune, che fu perseguito in ogni modo possibile.

Questa nuova Italia diventò faro del mondo, come lo era stato in altre epoche della sua storia. Le parole alla fine hanno sortito l’effetto sperato: la mia favola su quest’altra Italia, di fantasia, ha portato i miei figli nel sonno, dolcemente. Ma non è stato d’aiuto per il mio, una sensazione d’amarezza, incontenibile, si è sdraiata accanto a me sul letto. Ah, in televisione i miei figli non avevano visto un film horror, o qualcosa di simile, ma qualche minuto di uno dei tanti talk politici serali, al massimo del suo nero splendore.