Opinioni

Il piccolo Elvis, la sua e nostra Napoli, l'assedio di antichi e nuovi mali. Morire di povertà là dove di povertà si vive

Angelo Scelzo mercoledì 21 ottobre 2009
Elvis, 6 anni, da Capo Verde, è venuto a morire di povertà a Napoli. Non c’è luogo più atroce per morire di stenti perché a Napoli, per antica consuetudine, di povertà, piuttosto, si vive. I «bassi» dove Elvis viveva con la mamma, hanno la porta che s’affaccia sui vicoli ma, più ancora, sulla vita: come a guardarla meglio in faccia e ad affrontarla giorno dopo giorno con i mezzi che anche chi sbarca da altri mondi di privazione, impara presto a conoscere. Nei «bassi» si sta stretti; anche una piccola famiglia di madre e figlio finisce per avere poco spazio, perché c’è sempre da far posto a un inquilino che si chiama povertà. E a un inquilino così, non sempre bastano i tributi ordinari, né accade spesso che si lasci intenerire da quella rete di mutuo soccorso sempre all’opera, una forma di solidarietà corrente e minuta, che attraversa i vicoli e li anima molto più della sporadica luce del sole. Anche la povertà mostra di essere diventata più esigente. È uscita dai «bassi» e, non solo a Napoli, si è mossa alla conquista di spazi più vasti, e, un tempo, inesplorati. Gli uffici studi la seguono, passo su passo, su mappe di carta. Ma chi la vede avvicinarsi alla sua porta ha imparato a distinguerla da lontano, e a temerne i segni: ciò che, forse, non poteva fare mamma Manuela, lei che la povertà l’aveva già in casa e riusciva, in qualche modo a domarla. Proprio Elvis, il trovarsi a suo agio tra i compagni nel vicolo, e la cartella della scuola sempre in ordine, era il segno semmai opposto di una timida e scarna agiatezza che mai – sembrava – potesse essere scalfita da una bolletta della luce arrivata in ritardo. Anche la soglia di povertà, come del resto quella della ricchezza, ha parametri suoi, e quel braciere di carbonella, che nei bassi è stato sempre usato come un utensile di casa, ha finito per bruciare più che dare calore a una vita. Una tale forma di povertà non estrema non fa che rendere ancora più insopportabile questa morte che è riuscita a insinuarsi, infida e velenosa, tra varchi sguarniti, dove la povertà riesce a colpire anche attraverso le orme che lascia. Una vita di stenti non equivale sempre a una vita di miseria. E non è detto che dai «bassi» è possibile scorgere solo orizzonti cupi. Ma a sei anni, nel respiro di vita che lo ha accompagnato, a Elvis toccava certo il diritto di non doversi occupare di tutto questo. Aveva, a suo modo, già imparato a guardare avanti. A scuola era bravo e anche simpatico, e i suoi compagni andavano a cercarlo, quando non lo vedevano. Non poteva sapere di quel respiro di vita già insidiato dai residui di una povertà tenace e caparbia che è arrivata a inseguirlo da un capo all’altro del mondo. Con tutti i suoi drammi e le sue continue emergenze, anche Napoli, nel vasto panorama dei disagi nel mondo, può risultare un approdo. Ma proprio qui, nelle quinte nascoste di una città che, facendo scudo ai suoi poveri, cerca di salvare anche se stessa, Elvis si è visto atrocemente chiedere il conto. Ha dato i suoi pochi anni, ma ha lasciato scorgere quanto grandi fossero le sue speranze. E Napoli lascia intuire quando il suo cuore resta ferito. La morte di Elvis, e il dramma della mamma, in lotta per la vita, non sono entrati a far parte di una sua cronaca ordinaria. C’entra, ma non spiega tutto, neppure il sentimento di protezione per i bambini. Il dramma di Elvis è, in tutti i sensi, anche il dramma di una città che, pur assediata dai suoi mali antichi, non può fare a meno di guardarsi intorno per scorgere anche l’insidia dei nuovi. Anche la povertà cambia pelle. Ed è un braciere sempre acceso.