Opinioni

Senza vittorie e senza scuse. Ci restano un po' di «magari» e forse una lezione

Alberto Caprotti venerdì 25 giugno 2010
A casa. Con una massiccia sensazione di vergogna. E la marcata, grassa, tentazione di voler (e poter) infierire. Guai ai vinti. Di solito è così. Ma è anche troppo facile. Due pareggi e una sconfitta, contro avversarie appena sopra il livello del ridicolo. L’Italia esce. Si strappa da sola da un Mondiale imperfetto e finito ancor peggio di come si poteva immaginare. Eravamo campioni del mondo, fino a ieri alle 17.50, l’ora della fine. Fuori senza vittorie: non era mai accaduto. Fuori dopo tre partite appena, non succedeva dal 1974. Battuti dalla Slovacchia: non capitava dall’altra Corea della nostra storia. Ma questa volta – se possibile – è stato ancora peggio, molto peggio. Non una partita maledetta, ma un trittico. C’era più tempo per rimediare, per deviare la traiettoria di uno psicodramma all’italiana perfetto nella sua terribile costruzione scenica.Che film il mal d’Africa. Ricordarlo fa ancora male al cuore. Un commissario tecnico antipatico a prescindere, reso dai trionfi passati supponente e insensibile alla logica. Ma che alla fine si assume tutte le responsabilità. Bontà sua. Almeno qui ha scelto bene. Una squadra vecchia, strabaciata dalla fortuna quattro anni fa, schiantata anche dalla sorte adesso che si è ripresa una parte di quanto concesse. E poi la Slovacchia (34ª al mondo nelle classifiche di merito) che sembra il Brasile, perché gli azzurri sono specialisti a trasformarle tutte in Brasile le nostre avversarie. Non manca nemmeno il gol annullato ingiustamente. E il pallone ribattuto oltre la linea: era gol quello, forse. L’unica scusetta da esibire. Magari, avverbio sintomatico. Magari come tante, troppe cose di questo Paese. Magari ci fosse stato Cassano... E magari anche no. Appunto.L’arrembaggio finale, l’illusione, la disperazione. Tutti avanti. Confusamente. Sperando nel miracolo. Come facciamo spesso nelle cose della nostra vita, ottimisti anche oltre il novantesimo. Inutilmente. Hanno perso. “Noi” prima e “loro” adesso. Giù dal carro dei vincitori, come voleva Lippi. Solo che ha perso. Non ci sarà pietà, e probabilmente è sbagliato. Perché alla fine in campo non ha giocato lui, ma un gruppo bollito. Lippi l’ha scelto e promosso, ma quello ha fallito. Una squadra finita prima di cominciare, purtroppo. E che nemmeno ha dimostrato “carattere”, che poi è quasi sempre il complimento dei disperati.È già l’ora delle analisi, dei debordanti commenti, soprattutto politici. Indignati, ovviamente. Perché una sconfitta in silenzio – che alla fine è di tutti, non dimentichiamolo – evidentemente non è prevista dal regolamento. Il Sudafrica aveva i suoi Bafana-Bafana. Noi i nostri Padana-Padana. C’era anche il cinico gusto di quelli che vogliono perdere a prescindere. Italiani, strana gente. E strano pallone azzurro, che trionfa nel 2006 dopo “Calciopoli” e si squaglia come un gianduiotto al sole tra i fuochi d’artificio verbali di “Calderopoli”.Si è pianto ieri sul prato di Johannesburg. Lacrime di resa per un calcio, il nostro, che ha deluso profondamente, ma non ha sorpreso nel disastro. È così, questo è. Il trionfo di Berlino nel 2006 fu una straordinaria anomalia, e finalmente ce ne rendiamo conto. Non è eresia pensare che l’Inter (senza italiani) probabilmente è molto più forte di qualunque nazionale presente in questa Coppa del mondo. Che la Germania multietnica sta andando avanti con mezza formazione di origine turca o africana. La razza pura – ammesso e non concesso che ce ne sia mai stata una – non solo non esiste più. Non vince più. L’azzurro si salva accettando Balotelli, e non solo perché è un insopportabile estroso. Mischiare occorre, per resistere. Senza diventare paladini di poche idee e comunque confuse. Questo non perdoniamo a Lippi: perdere, al limite anche senza decoro, fa parte del gioco. Ma ci ha tolto l’Italia e le notti magiche. E adesso non sapremo più per chi star male.