Opinioni

Il centenario della nascita dello statista. Cent'anni fa nasceva Aldo Moro, parla la figlia

Antonio Maria Mira venerdì 23 settembre 2016
Aldo Moro, il padre e il politico del dialogo. «Un papà che puntava più sulla convinzione che sulla proibizione». Un politico per il quale dialogo era «rispetto e umiltà». Così lo ricorda la figlia Agnese, in occasione del centenario della nascita, il 23 settembre 1916. L’occasione, alcuni giorni fa, un incontro a Malosco, paese della Val di Non, in quel Trentino che Moro amava tanto, scegliendolo per le vacanze. Quasi un incontro tra amici. E il titolo è proprio su questo doppio ma unico aspetto: «Aldo Moro, essere padre in famiglia e nel paese». «Era un padre molto affettuoso, molto tenero – ricorda Agnese –. A volte gli uomini hanno un po’ di pudore a esprimere i propri sentimenti, soprattutto gli uomini di quella generazione. Lui questo non l’ha mai avuto. È sempre stato molto vicino, anche fisicamente. Tutte le fotografie in cui c’è qualcuno di noi, papà ci tiene per mano, in braccio, sotto braccio. C’è sempre questo desiderio di farti sentire che lui è vicino a te e ti vuole vicino a lui. Era un papà che puntava più sulla convinzione che sulla proibizione, come nella vita politica. La persona è sempre la stessa». Dialogo dunque, non imposizione. «Se riteneva che avessi un comportamento non giusto, cercava di farti capire che non lo era, puntava molto sulla goccia che scava la pietra. Non voglio che fumi e allora ti lascio ogni giorno una pubblicità contro il fumo sul letto, un articolo sui danni del fumo. E così avanti, 'tic tic tic'. Forse anche perché sapeva che se ci avesse preso di petto non avremmo preso neanche in considerazione la cosa essendo tutti dei caratteri molto forti». Padre convincente ma non serioso. Tutt’altro secondo la figlia. «Era un tipo molto simpatico. Mi faceva ridere, perché aveva certe cose strane. Ma tutta la mia famiglia era strana, perché viveva in ragione di questa cosa importante che faceva papà, che noi bambini non capivamo molto. Però cercavamo sempre di non pesare su di lui, di non dargli preoccupazioni, di comportarci bene e lui aveva questa capacità di comunicarti un’affettività che poi veramente non ho più ritrovato nella vita». E i ricordi diventano molto personali che Agnese non tiene per sé. «Ho un ricordo forse un po’ stupido ma per me preziosissimo. Quando da bambina mi faceva compagnia prima che mi addormentassi. Io avevo paura di tutto, per me nella stanza c’erano i mostri, i serpenti, i dinosauri. E allora lui veniva pazientemente. Prima dicevamo le preghiere, poi cominciava ad aprire tutto e diceva “vedi che non ci sono mostri, vedi che non c’è niente”. Finito tutto questo mi dava la mano finché non mi addormentavo. Quella mano che non mi ha lasciato mai. È rimasta veramente come una piccola eredità. Anche dopo quel 16 marzo. Mai, mai. Anche adesso. È una mano che so che c’è, sulla quale posso contare. A volte mi rompe anche le scatole, mi spinge a fare cose che non ho voglia di fare». Un padre davvero presente anche se, sottolinea la figlia, «fisicamente molto spesso lontano, con grande nostro dispiacere perché comunque lui è sempre stato il riferimento anche affettivo della famiglia. Così eravamo sempre molto contenti quando cadeva un governo di cui faceva parte perché finalmente lo avevamo un po’ per noi. Però pur essendo molto fuori di casa aveva dei suoi modi per starci vicino. Aveva la mania di mandarci le cartoline da tutti i posti del mondo, una per ognuno di noi naturalmente. Come per dirci “ero lontano ma di te mi sono ricordato”. Ci portava qualche regalino. E poi era sempre molto preoccupato per noi. Non andava mai a letto prima che fossimo tutti ritornati. Mai. Io incrementavo le sue mancanze di sonno perché arrivavo sempre tardissimo». Ancora una volta il rapporto molto stretto padre-figlia. Fino a un apparentemente secondario episodio. «Aveva un suo modo di esprimere questa preoccupazione che comunque non ti scaricava mai addosso, e questa è stata per me una cosa molto importante della sua vita. Ma magari la concentrava sul fatto di spegnere il gas. Ogni sua telefonata finiva sempre “mi raccomando spegnete il gas”, come se quello fosse la cosa che metteva tutta la famiglia al sicuro. Anche nelle sue lettere di addio dalla prigione delle Br non manca questo richiamo, “mi raccomando spegnete il gas”, aperta parentesi, Agnese, chiusa parentesi. Mi ha lasciato questo compito 'storico'». Un rapporto, una presenza, un fitto dialogo. Nel privato e nel pubblico. Con tutti. Così Agnese, scherzando, cita «una foto che per me rappresenta l’emblema di mio padre. È lui che in Lapponia cerca di parlare con una renna. Questo tentativo è molto significativo di quello che lui era. La guarda con una tale intensità. Sta cercando di comunicare. Sicuramente mi avrebbe sorpreso con una sua battuta. Forse mi avrebbe detto che gli aveva risposto. Magari più di tanti altri suoi colleghi...». Un dialogo, un confronto, che Moro non negò mai a nessuno. «Sicuramente io non ho imparato da lui l’idea che ci sia qualcuno con cui tu non puoi parlare. Questa per lui era un’idea estranea: non poter parlare con qualcuno perché nemico. Non ha mai avuto l’idea di nemico, come qualcosa di totalmente lontano da te, non umano, diverso da quello che sei tu. Se devi dire che quello è un nemico devi dire che non è umano». Convinzioni praticate e apprezzate anche al di fuori dalla politica. Così Agnese racconta un altro episodio. «Una volta un tassista in Sicilia mi disse: “Vede, suo padre aveva una cosa che è l’unica per la quale le persone ti ascoltano, che è presentarsi a loro con umiltà”. Io credo che nessun dialogo, con nessuno, possa nascere se tu non ti presenti all’altro con una grande umiltà e un grande rispetto, cercando di comprendere che cosa quell’altro ti vuole dire, senza considerarlo inferiore o peggiore o strano o diverso, talmente diverso da te che non puoi neanche scambiarvi due parole. Questo ho respirato nella vita con mio padre». E da dove prendeva questa convinzione? «Lui impersonava quella strada della Costituzione che è profondamente rivoluzionaria, che in nome della dignità delle persone, di ogni singola persona, ha preso quella che era la costruzione del potere di prima e l’ha scardinata, gli ha sfilato in maniera mite la politica e le cose e le ha distribuite. La scuola, la possibilità di curarsi, la protezione del lavoro». Un 'filo mite' che Moro tesseva ma che ad alcuni non piaceva. «Mio padre è stato colpito perché era una pietra di inciampo al ritorno indietro, verso i privilegi di pochi. Quello che è successo dopo getta una luce sul perché di quella morte. Lui non l’avrebbe permesso, nei limiti delle sue possibilità, con sua intelligenza e la sua capacità di convincere le persone. Mio padre è un perdente, ma fino a un certo punto perché comunque qualcosa di quel desiderio di un Paese buono, di un mondo buono in cui tutti, come diceva lui, “abbiano il loro libero respiro”, è rimasta». Però aggiunge, «abbiamo perso quell’incoraggiamento, che è presente in tutti i discorsi di mio padre dovunque vada, “stiamo facendo qualcosa insieme, dobbiamo farla insieme, ognuno ha la sua parte, la sua dignità, ognuno deve fare, ognuno può fare”. Questo davvero è stato interrotto. Non sta più nella politica, ma nelle mille e mille cose che la società fa. Quella speranza di vivere in un Paese diverso non è morta insieme a lui. Questa non è una consolazione perché io mio padre non ce l’ho più, però è una cosa che dà un senso a questa vicenda». E  il ricordo torna al 16 marzo 1978 e a quei 55 giorni. «Non abbiamo avuto la possibilità di un accompagnamento di nostro padre nel percorso della morte. Non ho potuto dirgli addio come avrei voluto. L’ultimo dialogo che ho avuto con lui è stato attraverso la porta di un bagno: io ero in ritardo, lui, come sempre, era in ritardo. L’ho salutato, “ciao, ci vediamo” e poi non ci siamo più visti». Ma poi giunge una sorpresa, forse parzialmente consolatoria. «Le sue ultime parole per me, quelle ce le ho, perché, sebbene con un ritardo mostruoso, 12 anni dopo la sua morte, sono state ritrovate nel covo delle Br di via Montenevoso a Milano, le fotocopie di lettere di addio, una per ognuno dei familiari. Parole insperate oramai, perché dopo tanti anni non pensi di sentirle più. Parole di conforto, di aiuto, di stima, di amicizia, di grande speranza. Sono tutte lettere estremamente positive, che utilizzano parole che non so come abbia fatto a usare in quelle circostanze, “gioisco nel ricordarti bambina” e si chiudono con “tanti auguri e tanta speranza”. Quelle lettere per me sono l’ultimo incontro con lui, perché è riuscito a renderle non solamente un messaggio in bottiglia, ma davvero qualcosa che ha parlato alla mia vita. Una vita ovviamente molto sconvolta da quegli avvenimenti, ma che ha potuto da quel momento prendere un’altra piega».