Opinioni

Giornata delle vittime. Migrare è (troppo) morire: ricordare per cambiare

Camillo Ripamonti mercoledì 3 ottobre 2018

In questo 3 ottobre celebriamo la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita nel 2016, con lo scopo di ricordare e commemorare tutte le vittime dei viaggi verso l’Europa e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà. È una data simbolo in ricordo della tragedia del naufragio del 2013 a largo di Lampedusa, durante il quale persero la vita centinaia di persone, 368 eritrei. Il numero delle persone di cui facciamo memoria è altissimo. Dal 1988 sono morti lungo le frontiere marittime dell’Europa almeno 35mila profughi e migranti. Ma il dato reale è molto più grande. Nessuno sa quanti siano i naufragi di cui non abbiamo mai avuto notizia. E ai naufragi nel Mediterraneo si vanno ad aggiungere i viaggi che finiscono tragicamente nel Sahara, i rimpatri forzati a cui corrisponde spesso la morte in carceri disumane, e non ultimi, episodi di violenza che si verificano nei Paesi di transito e alle frontiere.

Nel Mediterraneo senza più alcun dispositivo di soccorso, con i salvataggi affidati solo agli interventi non sistematici della Guardia costiera libica, settembre è stato il mese con il tasso di mortalità più alto che sia mai stato registrato: quasi il 20% di chi è partito risulta morto o disperso.

Fare memoria è certamente importante, ma perde il suo significato se si traduce in responsabilità condivisa e quotidiana. Siamo a un punto in cui contare i morti non basta a contrastare l’assuefazione all’indifferenza. Ormai la morte di 10, 20, 100 uomini, donne, persino bambini, non cambia nulla nelle nostre esistenze, nella nostra quotidianità, per troppi media non è neanche più una notizia. Al Centro Astalli, servizio dei gesuiti per i rifugiati, abbiamo voluto compiere un segno di memoria e accoglienza. Nelle città in cui siamo presenti – Catania, Grumo Nevano, Padova, Palermo, Trento, Vicenza, Roma – oggi inauguriamo i giardini della memoria e dell’accoglienza dove poter mettere a dimora un albero.

Non abbiamo voluto dedicare un giardino nuovo, a parte, separato, come se questa parte di memoria fosse qualcosa di giustapposto alla nostra storia, ma parti di giardini già esistenti perché la memoria delle vittime dell’immigrazione è storia del nostro Paese che dobbiamo portare con noi. Giardini e non singoli alberi perché il giardino è un insieme di diversità di specie, ognuna con la propria peculiarità, proprio come la memoria di persone la cui scomparsa ha lasciato questo nostro mondo più povero, della loro straordinaria unicità. Erano bambini, donne e uomini appartenenti a diverse culture, religioni, nazioni, ma tutti esseri umani che si sono messi in viaggio in fuga o in ricerca di condizioni di vita migliori.

Lo abbiamo fatto nelle città, perché la memoria deve essere di ogni cittadino e collettiva, ma soprattutto perché le città, come diceva Giorgio La Pira, sono «unità viventi' veri microcosmi in cui si concentrano i valori essenziali della storia passata e veri centri da cui si irraggiano i valori per la stessa storia futura».

Piantiamo un albero dell’accoglienza nel giardino della memoria, simbolo della vita che ha nelle proprie radici la memoria della nostra storia. Ci servono radici ben salde se non vogliamo che l’albero della nostra umanità sia sradicato dai venti violenti dell’intolleranza e della sopraffazione. Una via per contrastare la morte di profughi e migranti, per dire basta, per fermare l’orrore che si consuma quotidianamente sotto i nostri occhi può essere quella di dedicarsi a raccontare le storie dei rifugiati, quelli vivi. Sogni, competenze, vissuti... Troviamo il modo per instaurare una relazione con i rifugiati. A loro va dato spazio nelle nostre società. In molti contesti lo hanno già: la scuola, le comunità, le associazioni spesso creano occasioni per far ascoltare la voce dei rifugiati e sperimentare direttamente che cambiare prospettiva è possibile.

Bisogna dare conto di tale ricchezza con sistematicità: serve presidiare contenuti, processi, strumenti per creare coerenza tra un mondo di valori privati come la solidarietà, la generosità e la dimensione pubblica dove invece populismo, sensazionalismo e persino un certo rifiuto verso l’approfondimento culturale sembrano avere la meglio.

Sacerdote, presidente Centro Astalli servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia